“Vieni, vieni in campagna, che stai a fare in città?”, confutiamo l’idea del Signor G e adattiamola a questi  “tempi confusi”, perché mai avremmo immaginato di poter riscoprire un post-umanesimo urbano, nei e tra, i borghi abbandonati (o semi-abbandonati) del bel Paese.

Dove stiamo andando potremmo chiederci, se lo sviluppo antropologico della città ha manifestato tutti i suoi limiti ben prima della Pandemia, e quello verso cui stiamo guardando, potrebbe essere il luogo più consono alle esigenze del nostro futuro.

Dunque, campagna per tutti, verde e aria buona, silenzi, siepi per ammirare nuovi infiniti, e “interminati spazi di la da quella”, rapporti umani ricostruiti, cibo buono, case fatte con la maestria di una volta, quando l’architetto non era stato ancora inventato.

Potrà dunque, la civiltà “del superfluo e delle superfici bidimensionali” che si sovrappongono senza fare spessore, tornare alla profondità di un’esistenza densa, piena, vera?

Certo la sequenza infinita delle positività di questo tragitto-percorso concettuale a ritroso, non consente ripensamenti, ed in effetti dalla fine del secolo scorso si è affermata una cultura diffusa, più turistica che paesaggistica, che ci portava a guardare con occhi estasiati, la stradina storta e massiccia di pietra, il rudere archeo-religioso, facciate scarne e la ”micro aia” glamour , arie misteriose che ci raggiungevano fin dentro il nostro martoriato respiro cittadino

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 Cosa volere di più anche per   la neo-società “da remoto” che ci avrebbe aiutato a ricomporre la nostra identità originaria, senza nostalgie o  revival: un semi-nirvana in terra.

Dopo aver rinunciato ai viaggi esotici obbligatori e ultra-turistici, torneremo a condividere il nostro patrimonio genetico-architettonico, cambiando abitudini , cibi, regole, tempi e addirittura compensi.

Probabilmente quando il lavoro conterà meno, e sarà solo una delle tante attività con cui occupare il tempo di una giornata perchè finalmente faremo soltanto quello che ci piace, dove ci piace e quando ci piace.

Questo non è un programma di gala ma  è un invito diffuso in paradiso, a basso prezzo e, con poca fatica, che ci riporta allo sguardo del protagonista di Aurora di Murnau, che assiste allo spettacolo della città come la più imponente occasione per essere veramente liberi.

Dunque si cambia registro per quella che ci sembrava “Libertà” e che ci ha fatto precipitare, in una Metropolis diffusa, e rimpiangere il danno cui cercavamo di rimediare.

Certo quelle arcaiche privazioni, la fatica vera, il disagio quotidiano divenuto abitudine e la reiterazione di consuetudini che sopravvivono quando non sono messe in discussione dall’”altro”, da quello che c’è, quando la campagna, finisce.

Comunque abbiamo abitato per millenni in questa Arcadia dove vorremmo ritornare per ritrovarci , nuovi, ma sempre figli di una diversa cultura contemporanea.

Il borgo-campagna non ha nulla di simile alla città (in tutte le sue declinazioni) che l’ha sostituita, ma rappresenta un’ipotesi esistenziale alternativa da riorganizzare anche funzionalmente, dando spazi e luoghi a nuove energie, idee, forme sociali e aggregative, con un pericolo sempre in agguato.

(Una patata, una cipolla e una pesca.)

Ma nel terzo millennio una patata , una cipolla e una pesca non sono concetti simili a quelli che i nostri nonni condividevano, la campagna attorno ai nuovi borghi sarebbe comunque abitata da post-cittadini, perennemente interconnessi, e mediatici, incapaci di ritrovare l’aderenza all’essenza stessa dell’esistenza calpestata e rimossa dalla “post-post modernità”.

Un progetto di insediamento urbanistico che è anche una sorta di programma di ri-educazione etica ed estetica, non impossibile da realizzare.

Quello che possiamo provare a scoprire, conservandolo, è il patrimonio ambientale e umano che in pochi decenni ha rischiato di scomparire, e soltanto attraverso la paura, sempre maggiore, di vivere nel Moloch post-contemporaneo (la città-divinità, affascinante ed erotica), ci rende curiosi di un nuovo cominciamento, un inizio che non può essere sorretto dalle nostre sconnesse considerazioni dell’ homo post-tecnologicus

La campagna-borgo è un probabile approdo che non potrà mai cancellare la nostra voglia strutturale di scappare a Roma a Milano o addirittura a Londra e San Francisco (cit. Michele Masneri), e non possiamo considerarla una fuga ma una nuova condizione esistenziale, una scelta, non un percorso obbligato ma una sfida epocale, anche in relazione alle patologie gravi che il nostro territorio non riesce più a curare.

Dalla crisi non nasce una nuova comunità ma si trasformano quella o quelle co-esistenti , in un processo poli-dimensionale e inter-funzionale che comporta cambiamenti culturali, etici e in seconda analisi, estetici.

Il post-borgo non sarà mai più quello che è stato per secoli, perché noi non saremo più quegli abitatori, ma qualcosa di nuovo , in un luogo antico ma sempre diverso dalla sua origine, un’azione urbanistica che nasce da una matrice sociologica, e viceversa.

Non pensate alle nuove forme di socialità condivisa come ad una comune di vecchi e nuovi nostalgici con il pensiero al futuro ma, con il cuore sagomato sull’estate del 1967.

 L’urbanistica delle grandi e piccole dimensioni, deve fare i conti con una nuova sequenza di funzionalità e formule di flessibilità che riguardano tutte le attività umane, sia nel borgo/campagna che nelle post-città.

Possiamo immaginare che i due insediamenti originari possano dar luogo a forme dialettiche innovative oggi impensabili, e parti di città diventare borghi, e la costellazione delle meraviglie disseminate su tutto il territorio, poli di un progetto-programma più ampio, denso di investimenti sulla cultura materiale locale, sulle forme più ambite di ricettività ambientale e soprattutto la celebrazione costante del sistema agro-alimentare nazionale.

Questo duplice sistema progettuale: ambientale e urbanistico è in grado di valorizzare tutto il territorio nazionale creando il più imponente piano di investimento della storia di questo paese, con la conseguente eliminazione di una consistente fascia di disoccupazione (giovanile e senile), ma per questo ci vorrebbe un’istituzione come fu negli anni il ministero delle aree urbane.

Naturalmente questo è un sogno che non tiene conto delle complessità politiche e culturali di un paese frantumato e confuso ma, noi crediamo che un giornale debba dare indicazioni anche concettualmente spericolate, per indicare prima di altri, la strada per ricomporre il vocabolario della città, della campagna, del borgo e del loro coesistere all’interno di un diverso sistema antropocentrico e ambientale, senza gerarchie e conflittualità.

Una nuova “geografia urbanistica dei valori”, per controllare la salvaguardia della qualità dei territori, “bene comune” e unica eredità per tutti i cittadini di oggi e di domani.


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