Da qualche decennio la pianificazione dello spazio pare trovarsi in una fase di crisi, che investe in primo luogo l’attività dell’architetto stesso (come sintetizzato efficacemente da Cino Zucchi nel suo recente podcast).

È soprattutto nel contesto dello spazio urbano che viene alla luce questa indecisione: da una parte l’azione pare limitata alla  gestione degli spazi in base ad attribuzioni funzionali e allo sviluppo demografico, dall’altra si notano interventi audaci, che intenderebbero, almeno inconsapevolmente, agire nella dimensione simbolica – dimensione che non può che riferirsi alle alterità assolute di storia e della natura.

La città è insomma un fardello di esperienze e traumi vissuti da altri ed uno spazio opposto alla “natura”, un’astrazione a cui, si presume, l’essere umano è stato un tempo affine. Al tempo stesso, all’uomo urbanizzato è comunque ben presente quanto la città sia innanzitutto metafora del suo Dasein. Non a caso, nel momento in cui l’essere umano si definisce principalmente come ente biologico, le metafore più ricorrenti riferite alla città sono di carattere biologico: un organismo che cresce in maniera tentacolare o radiale, innervato come un vegetale, che fagocita lo spazio circostante, afflitto da patologie simili a quelle del sistema nervoso o dell’apparato circolatorio.

“Se proprio la città dev’essere messa in relazione con la fisiologia, più che a ogni altra cosa essa somiglia a un sogno”, così Joseph Rykwert nel suo saggio fondamentale L’idea di città, pubblicato da Adelphi nel 1976. Per quanto questa metafora possa sembrare forzata, essa ci invita ad un confronto con ciò che lo spazio urbano rappresenta storicamente e, soprattutto, simbolicamente. Il sogno ci ripresenta infatti la realtà cosciente in un ordine simbolico, in cui le aspirazioni sono più chiaramente riconoscibili. Non solo: il sogno è contiguo al trauma.

E, non a caso, la narrazione della nascita di ogni città antica si apre con un momento traumatico. Ne abbiamo un’immagine perfetta nel fratricidio che prelude alla nascita di Roma – e che ricorda da vicino l’assassinio di Abele da parte di Caino, ovvero colui che, prendendo possesso (dalla radice knh), decreta la fine di un’umanità dedita all’agricoltura e all’allevamento. Tuttavia, non è tanto l’avvicendamento di due società a dare origine alle leggende di una fondazione sanguinosa, quanto l’idea che il costruire sia una forzatura rispetto all’ordine naturale.

Il sacrificio iniziale è dunque pensato come riparazione di questa rottura, così come la sua mitizzazione serve a renderlo presente alla coscienza, mondato dal suo carattere inquietante. Allo stesso modo, i richiami ad una rottura da ricomporre sono parte integrante dei rituali inaugurali e periodici che segnano l’esistenza della città nell’antichità.

Parafrasando le parole di Rykwert, la mitizzazione di un sacrificio primordiale segna definitivamente la separazione fra noto e ignoto, fra sacro e profano, ricalcando così l’ascesa della coscienza. Non per questo, tuttavia, la sacralità diventa un elemento estraneo: tramite la sua continua evocazione nei riti (le feste annuali dei Lupercalia, ad esempio) e nelle forme (si pensi ai cippi, alle erme, alle edicole ed alle loro derivazioni più tarde), essa diventa parte essenziale del paesaggio urbano.

Le fonti ci restituiscono in maniera esatta anche i procedimenti rituali che sottendevano all’esistenza di una città, illustrando in maniera accurata la loro aderenza ad un ordine intelligibile. Invano lo sguardo moderno si metterebbe alla ricerca di dettagli su come una città veniva pianificata tecnicamente al momento della sua nascita. Altrettanto invano si è cercato di ricostruire attraverso gli scavi la pianta quadrilatera della Roma quadrata citata nei testi classici, mentre allo sguardo sfuggiva l’evidente connessione fra il quadrato e la quadripartizione del cosmo, del corpo umano e delle società primitive.

Né lo sguardo apollineo che sembra caratterizzare la nostra epoca è in grado di investigare a fondo il mundus, la fossa scavata vicina al cuore dei centri urbani etruschi e romani (ma in realtà conosciuta anche nelle civiltà dell’India arcaica). Nel mundus, la ferita aperta nel terreno che ospita il nucleo urbano, si raccolgono oggetti simbolici, resti di sacrifici, talvolta pugni di terra traslati dalla madrepatria – ovvero oggetti che celebrano il legame fra città e natura primigenia.

Soprattutto, il mundus (che a Roma fu strettamente connesso con il culto della dea extra-olimpica Vesta) si profila come il locus genitalis della città, e dunque matrice della presenza umana nel mondo, che davanti a questa apertura è chiamata ad interrogarsi. Il fatto che l’idea dello spazio in cui viviamo, il weralt delle lingue germaniche (e, a partire da queste parola, le differenze fra i vari ceppi culturali potrebbero aprirci ulteriori prospettive da indagare…) derivi proprio da questa apertura verso il lato ctonio della realtà, ci fa pensare quanto la continuità con il passato non si sia mai interrotta, ma solo momentaneamente rimossa.

“Quanti affermano che il ritrovamento della causa elimina il significato di un fenomeno, non riflettono come con questo principio vengano a respingere, assieme ai segni di origine divina, anche quelli prodotti artificialmente dall’uomo”, suggerisce Plutarco nella Vita di Pericle.

All’inizio del XIX secolo, le norme del Codice Napoleonico, in particolare l’Editto di Saint-Cloud, che dispone la sepoltura al di fuori dello spazio urbano per questioni di igiene, fanno intuire un cambiamento di prospettiva nell’immaginare lo spazio urbano. Con le ristrutturazioni haussmanniane, che saranno il modello di tutte le capitali europee e non solo negli anni successivi, si ha un’idea più precisa del nuovo principio unitario a cui la città moderna deve aderire: “grande mercato di consumo… immenso opificio… arena per le ambizioni” (e qui già risuona il metro dello zoning del secondo Dopoguerra).

Si sono spesso interpretati i grandi boulevard come una reazione alla catastrofe della Comune di Parigi, mentre i pensatori positivisti tendevano piuttosto a sottolineare il carattere “igienico” dei grandi spazi. Senza dubbio, le strade di grandezza smisurata di Parigi o di Vienna si pongono come concretizzazione di uno sguardo razionale che illumina la realtà e non lascia spazio ad ombre. Ma, se vogliamo dar retta a Camille Paglia, è proprio nel momento in cui il tagliente sguardo apollineo crede di aver avuto la meglio sulla realtà che lo ctonio è pronto a tornar fuori in tutta la sua potenza devastante. Non è forse un caso che, all’indomani dei primi lockdown, in molti hanno percepito l’immagine della natura che riprendeva lentamente possesso degli spazi urbani come un’immagine quasi ovvia, o quantomeno già presente nella nostra coscienza.

Nel suo podcast dedicato alla Green Mind Attitude, Maurizio De Caro non poteva che constatare come l’unica certezza per il futuro dell’architettura sia che “la natura si riprenderà tutto”.

Tuttavia, un rientro prepotente di ciò che è esterno alla città nel nostro spazio non è per forza un fatto catastrofico, come lascia presagire il Manifesto del Terzo Paesaggio di Gilles Clément. In questo concetto, l’entomologo ed architetto del paesaggio francese condensa una serie di realtà un tempo sfruttate dall’essere umano, ma ormai indipendenti dalle sue decisioni: aree urbane e industriali dismesse, terreni incolti, piccole strisce di terra in cui la biodiversità si sviluppa molto velocemente.

Si tratta di zone strettamente contigue alle riserve (opposte per definizione ai territori antropizzati), che si spingono fin dentro agli spazi urbanizzati. Con questo termine, Clément richiama astutamente il Terzo Stato nella definizione di Sieyès (“Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa desidera? Diventare qualcosa”), lasciando ad altri il compito di indagare approfonditamente la terra di nessuno da lui individuata. In più di un’occasione, Clément ha voluto definire il terzo paesaggio come il territorio in cui si schierano i sentimenti di libertà, lodando poi alcune iniziative, come l’atelier del Terzo Luogo presso le Manifatture Knos di Lecce.

Un’esperienza interessante, ma che nulla aggiunge ai numerosi interventi di recupero di aree dismesse, attuati negli ultimi decenni – interventi che, non a caso, aspirano ad un’ulteriore legittimazione tramite istanze che con l’architettura e la pianificazione urbana hanno poco a che vedere.

Apparentemente, il contributo fondamentale di Clément sta piuttosto nell’aver proposto un nuovo sguardo sul paesaggio circostante (il Giardino Planetario, sempre in base ad una sua definizione), uno sguardo indipendente dall’azione umana. Nel suo Manifesto, Clément ci rivela però alcuni dettagli da tenere di conto per ristabilire una continuità fra territori antropizzati e terzo paesaggio: una maggiore continuità fra le due aree potrebbe garantire lo sviluppo della biodiversità. In questo senso, gli esperimenti urbanistici degli anni Venti nel Nordeuropa potrebbero essere di ispirazione.

Un suggerimento ancora più importante, espresso nel Manifeste du tiers paysage, è quello di non lavorare contro la natura, ma con la natura. Considerando quanto il green washing a cui ci siamo abituati negli ultimi anni non sia che una fase destinata a passare a breve nell’oblio insieme a decine di altri stili, ci piacerebbe interpretare la frase di Clément come un invito a relegare al passato l’idea dell’essere umano in lotta per liberarsi dalle forze della natura.

Autore dell’articolo Daniele Abbruzzese


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