Nanda Vigo

“La sera andavamo al 16 di via Fiori Chiari, a Brera, da Piero (Manzoni), con Lucio(Fontana), Enrico(Castellani) e gli altri”

“Sono puntigliosa e forte di temperamento. Quello che devo dire lo dico sempre. E poi sono orgogliosa. Deve considerare che sono cresciuta, come altre, in una cultura di dominio maschile. Non c’era altra espressione: o ti veniva fuori il carattere o niente. Ecco, a me è venuto fuori per amore del mio lavoro” (da una intervista rilasciata a F. Esposito per domusweb.it, 2018).

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Nanda Vigo ci teneva molto a raccontare quell’humus culturale che l’aveva prodotta e che lei aveva contribuito a creare, in una Milano priva di lustrini al limite degli anni cinquanta, un mondo di enormi talenti brulicava le terre desolate delle avanguardie italiane, cercando sprovincializzare la più grande provincia del mondo: l’Italia.

Artisti di importanza planetaria ( Manzoni e Fontana su tutti, ma anche Castellani, Lo Savio e molti altri) facevano da corona all’esplosione di una vitalità intellettuale capace di ispirare anche la cultura europea degli anni successivi.

Per non parlare dell’architettura dei Ponti, Magistretti, del design nascente, e di tutte le altre espressioni del pensiero milanese che diventa in poco tempo italiano ed europeo.

Laureata a Losanna, ha in testa un programma preciso dove le discipline e le attività professionali e artistiche necessitano di una contaminazione, quell’ibridazione attivata con trenta anni di anticipo.

Ma è nel design, nella luce, che “la Nanda” (come si dice dalle nostre parti) trova il suo ganglio teorico e progettuale, un’ossessione che l’accompagnerà per tutta la vita.

Light è il tema costante evidente o sotteso delle oltre 400 mostre cui ha partecipato, oltre a quelle che ha allestito nel campo dell’architettura e dell’arte, e nei pochi ma, significativi progetti, realizzati: su tutti ricordiamo nel 1968 (con Gio Ponti) la Casa sotto la foglia a Malo e quindi  la Casa Museo Remo Brindisi a Lido di Spina (Ferrara).

Il sodalizio con Piero Manzoni (finalmente stabilizzatosi come uno dei più grandi artisti europei del secondo dopoguerra), non è solo un momento di alta dialettica culturale ma l’osmosi concettuale, perché la Vigo è come se assorbisse dentro di se, la grandezza dei suoi sodali e ne trasferisse sui vari piani disciplinari, propri e originali, le profonde istanze intuite, contraddittorie o lampanti.

E’ un vero sismografo intellettuale di “quei bei tempi, di quei bei giorni”, sente prima i “vari sismi” che stanno facendo barcollare l’accademia italiana, artistica e progettuale, e la sua frenetica attività poli-disciplinare esprime una parabola professionale difficilmente ripetibile o riscontrabile altrove.

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Ci piace dunque ricordarla per il metodo creativo originale, per la densità culturale inter-disciplinare che non per i pur significativi risultati in tutti gli ambiti che ha attraversato perché la sua opera possa rimanere viva e sempre attuale, e vorrei ricordare la profonda attualità della mostra “Piero Manzoni – Milano et Mitologia” del 1997 a Palazzo Reale.

Troppe sono e troppo diverse le cose che resteranno di questa grande protagonista della cultura italiana del progetto, e non è un caso che dopo la mostra del 2019 al Palazzo Reale di Milano (Nanda Vigo. Light Project) si apra mercoledì 20 maggio al Museo MACTE di Termoli, a cura di L. Cherubini, prima mostra postuma, come a rimarcare la necessità di una rivalutazione, di una rilettura.

Quello che ci piacerebbe riprodurre, ora e qui, è l’atmosfera e l’attitudine di Milano in quegli anni, lo splendido incontro di menti straordinarie che nel buio della città appena risollevatasi dalla distruzione, avevano il coraggio e la lungimiranza di porre la cultura, il progetto e l’arte al centro di ogni rinascita civile e sociale, come dovrebbe o potrebbe essere dopo la pandemia recente.

Nanda Vigo resta viva nelle sue numerose creazioni, nelle sue collaborazioni e nei suoi scritti.

 La sua formazione, la sua curiosità implacabile, la voglia di viaggiare e di trovarsi nei luoghi dove le cose accadono prima, ne fanno un’eroina che ha attraversato con grande rigore (non aveva un bel carattere, vi assicuro), mezzo secolo di tempeste emotive e di restaurazioni polverose.

Nanda e i suoi amici semplici e grandi ci hanno insegnato che cosa significa “essere avanguardia, pensare avanguardia”, con tutta quella scomodità che oggi appare desueta, in epoche di “pasoliniana omologazione”, ma sentiamo all’orizzonte, ancora viva quell’auretta che riesce ancora a stimolarci.

Un racconto/respiro ancora vivo, intenso, forse problematico in epoche di semplificazione, che necessita una rilettura anti-retorica e potrebbe procurarci nuovi spunti per tornare a creare gli scenari che la nostra contemporaneità istantanea, ricerca da troppo tempo.


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