Thom Mayne

Per una consapevolezza ambientale ed espressiva dell’architettura parametrica.

All’inizio degli anni Settanta, l’artista americano Robert Morris ha sviluppato un profondo interesse per il pensiero di Michel Foucault. Una delle sue espressioni più significative è la serie di disegni e incisioni In the Realm of the Carceral (1978), ispirata dalla lettura del fondamentale saggio del filosofo francese, Surveiller et Punir. Naissance de la Prison (1975).

Come sostiene Foucault, l’idea originaria delle carceri moderne non si ispira tanto all’idea illuminista della “resurrezione attraverso l’educazione”, quanto piuttosto a una più blanda continuazione delle antiche punizioni più violente del reo, dalla tortura all’uccisione, tradotte in dure e interminabili reclusioni.

Robert Morris, In the Realm of the Carceral, incisione e acquatinta, Styria Studio, New York,1978/79: coll. privata, Milano

Incidentalmente, durante la dura autoreclusione per la pandemia Covid19 in Italia, ho trovato on line una di quelle acqueforti/acquetinte, l’ho comprata e appesa a una parete del mio studio. Le grandi dimensioni della stampa firmata da Bob Morris la fanno sembrare una sorta di architettura, a sua volta sospesa sulla mia testa, per meditare sulla costruzione dell’universalità dell’arte.

In questa rappresentazione minimal/concettuale della prigione, l’artista mostra in effetti l’ansia della condizione di reclusione attraverso linee nere rette su uno sfondo bianco, più o meno marcate ma tutte tese a definire quel campo ansiogeno – psicologico e “tecnico” allo stesso tempo – dove chiunque potrebbe dover trascorrere il suo carcere a vita, per le costrizioni di legge o per destino esistenziale.

Tutti i veri artisti aspirano a produrre opere di questo tipo, che possano “parlare” a qualsiasi persona, indipendentemente dalla condizione politica che sta vivendo: e per politica (dal greco antico, πόλις) intendo proprio come le persone possano vivere il più possibile libere nel contesto dei territori urbani, come possano affrontare la durezza e i piaceri della reclusione in luoghi limitati, alieni all’ambiente naturale, sempre più controllati dai governi e allo stesso tempo rischiosi, qualunque sia la città: Los Angeles o Roma, Detroit o Milano, Parigi o Singapore.

Thom Mayne/Morphosis, Cooper Union’s School, 41 Cooper Square, New York 2006

Non c’è dubbio che nel contesto politico – come lo intendo qui – la responsabilità maggiore nel cercare di rendere la città un luogo meglio vivibile e il più possibile in armonia con la natura circostante stia nel lavoro dell’architetto, autore contemporaneo che accetta di confrontarsi non solo con le funzioni, le necessità, la burocrazia e i problemi finanziari della costruzione. Ma anche con i più difficili problemi estetici del contesto e dell’ambiente che altre arti raramente devono affrontare.

La risposta, le molte risposte che in sessant’anni di lavoro Thom Mayne ha dato alle regole di questo contratto di responsabilità sociale dell’architetto non si basano solo sulle capacità intellettuali sue e dei suoi team nel plasmare tecnicamente le forme degli edifici – dall’interno all’esterno: ma hanno molto a che fare con una visione del paesaggio urbano come ambiente artificiale/naturale, considerato come un giardino globale di sculture, e sulla sua costante ricerca di libertà per come l’architettura possa essere creata e vissuta: e forse anche estinta, all’esaurirsi della sua utilità.

Thom Mayne/Morphosis, Cooper Union’s School (interni), 41 Cooper Square, New York

Il segno più forte e caratteristico di questa ricerca di libertà che si può leggere nel lavoro di Mayne è il tentativo di progettare e non essere progettati da un qualche vocabolario formalistico, ma con l’intento di sperimentare in ogni progetto un diverso insieme di regole per la composizione: dove campi, frammenti, buchi, curve, sfocature plasmano lo spazio dell’abitare, dal residenziale all’educativo, dal monumentale alla piccola scala, in un grande esperimento di “libertà pianificata”.

In questo, lo stare delle sue costruzioni nell’ambiente terrestre – dalla California democratica alla Cina capital/comunista – è per Thom una “seconda natura”, anche se fatta di forme, materiali e tecniche costruttive artificiali, le uniche che consentono al progettista di mantenere la propria identità. Sempre che non si voglia rinunciare al ruolo di progettista inventore, per trasformarsi in giardiniere (o orticoltore) verticale e delegare la sostenibilità dell’edificio alla piantagione e alla coltivazione del verde (alberi, prati, fiori) dentro – o più comodamente sopra gli edifici, come certi architetti fanno per distinguersi ai fini di quel marketing che deve inevitabilmente pagare un prezzo al greenwashing nel business immobiliare.

Thom Mayne/Morphosis, il grande aggetto sullo specchio d’acqua del Giant Interactive Group Corporate Headquarters, Songjiang, Cina, 2010

Si tratti di quelli che un vero pioniere dell’architettura sostenibile come Emilio Ambasz definisce suoi “figli, nipoti e non pochi bastardini” o di autentici sperimentatori di soluzioni sostenibili nella costruzione, tutti rischiano di essere accomunati sotto la comoda, obsoleta e in fondo insignificante etichetta di “Green Architecture”, se le loro opere restano isolate dal contesto sociale ed ambientale.

Immune da contaminazioni di marketing, da tempo Thom Mayne agisce invece al cuore del problema ambientale, lo sviluppo urbano e il controllo “politico” sui suoi limiti. Così già all’inizio degli anni 2000, con UCLA, Sci-Arc e Art Center (con l’allora direttore Richard Koshalek) ha guidato il grande progetto L.A. Now : esplorazione minuziosa della realtà del territorio angeleno a tutti i livelli, pragmaticamente lontano dalla sintesi narrativa di Rayner Banham e dall’ideologismo di Mike Davis, rispettivamente autori di L’architettura delle quattro ecologie (Los Angeles, The Architecture of Four Ecologies, 1971) e Città di Quarzo (City of Quartz. Excavating the future of Los Angeles, 1990), testi memorabili su Los Angeles e il suo territorio che con accenti diversi hanno contribuito a crearne il mito di città paradossale e impossibile. Opus magnum composto di 4 volumi (2001/2006), L.A. Now risulta invece ancora un utile manuale per chiunque voglia affrontare organicamente il redesign anche solo di piccole parti della Città degli Angeli.

Così le ricerche condotte dal team guidato da Mayne per questo grande censimento hanno uno sbocco naturale in un quinto volume, Combinatory Urbanism. The Complex Behavior of Collective Form (2011) che presenta teoria e prassi seguite nello sviluppo di progetti non del tutto utopici, come quello per il Los Angeles State Historic Park. Incentrato su una decisa operazione urbanistica che prevedeva lo spostamento del Dodger Stadium e la restituzione dell’area a verde e residenze, il progetto del grande parco con vista sulla Downtown includeva la rivitalizzazione del Los Angeles River, ignoto ai più e canalizzato tra due muraglie di cemento ormai dalla fine degli anni Trenta.

Altro capo della discussione tra natura ed espressione è quello del linguaggio dell’architettura parametrica, il processo di progettazione contemporaneo basato su schemi algoritmici, che consentono di indirizzare parametri e regole per definire e organizzare la relazione esistente tra i requisiti di progetto e la costruzione concreta, prodotto finale di quel processo.

Thom Mayne/Morphosis, Seoul Performing Arts Center, South Corea, 2009

A questo nuovo tipo di progettazione Mayne ha portato esperienze tra le più innovative, in una serie di realizzazioni – dalla facoltà d’ingegneria della Cooper Union’s 41 Cooper Square (New York (2006) al recentissimo complesso ENI di San Donato Milanese (2011/2023, in costruzione) – e prima ancora di modelli di lavoro (mock-ups), che costituiscono un suo secondo corpus di opere d’arte, per certi aspetti autonome e “libere” dai vincoli della realtà di cantiere.

Libertà non significa però negare l’interesse dell’architetto per la società e il suo Zeitgeist, e le visioni architettoniche di Mayne non cercano di sfuggire al senso contemporaneo di instabilità della vita e del progetto: ma lo includono nelle piante, negli alzati e nelle sezioni, così che già al primo stadio dei modelli i suoi edifici parlano di quell’instabilità, controbilanciata dalla recitazione di forme e strutture “impossibili” o “inedite”.

Non è un caso che durante il viaggio che nel dicembre 2022 ci ha portato da Milano a Perugia per la sua conferenza introduttiva al festival Seed di Perugia (24/30 aprile 2023) Thom abbia voluto visitare insieme la “Chiesa sull’Autostrada” presso Firenze, capolavoro della fase espressionista del grande maestro moderno Giovanni Michelucci.

Thom Mayne in visita alla Chiesa sull’Autostrada di Giovanni Michelucci, dicembre 2022 (foto Stefano Casciani)

Qui Thom ha potuto meditare sul significato della libertà di linguaggio che Michelucci così bene rappresenta, ricorrendo a simbologie e metafore della natura, come negli altissimi pilastri ramificati che sostengono la grande copertura-tenda a sezione iperbolica di quell’unico spazio aperto, al tempo stesso monumento ai caduti sul lavoro, chiesa e luogo di riflessione laica sul rapporto tra mistero della fede e crudezza della realtà.

Ho già scritto del processo di progettazione che porta le costruzioni di Thom a confrontarsi con questa realtà, in particolare nella fase di modellazione in cui – come il regista Robert Bresson nei film – l’autore parla enigmaticamente all’osservatore della forma delle cose che verranno: e allo stesso tempo riflette su sé stesso nell’arte e nella società, cercando la sua collocazione personale e sociale, tentando di trovare una definizione del suo stesso essere nel tempo e nello spazio. E ancora, l’aspetto a volte misterioso di modelli e dichiarazioni teoriche di Thom non è una maschera da indossare sul mistero logico della statica che le costruzioni che ne derivano sembrano sfidare onestamente e apertamente.

Le strutture portanti dendriformi della Chiesa sull’Autostrada di Giovanni Michelucci

Assomiglia piuttosto alla corazza che ogni persona indossa ogni giorno per affrontare la vita e le sue difficoltà, come il Paguro Bernardo indossa il guscio migliore che ha trovato adatto a proteggere la sua delicata natura. Allora il modello, il disegno, il rendering non sono più costume, accessorio o vestito di gala: ma diventano la persona o il granchio stesso, (l’edificio) armati dalla rappresentazione della massa e del peso e dei materiali e dei colori dell’architettura, per sopravvivere all’in-sostenibile leggerezza del vivere contemporaneo, alla ricerca di una possibile nuova forma di libertà, per l’architetto come per la comunità a cui si rivolge col suo lavoro.

Post Scriptum. Mi piacerebbe che un giorno nel mio studio, sotto l’acquaforte di Bob Morris, fosse poggiato sul ripiano della libreria uno dei modelli d’architettura di Thom Mayne, per cercare di spiegare al visitatore la differenza tra costrizione e libertà nel nostro mondo politico, cioè la città e il suo intorno.


Seguici sui nostri canali per restare sempre aggiornato:

Exit mobile version