Maestri e nuove guide

Qualche anno fa il prof Ivan Rizzi, presidente dell’Istituto di Alti Studi Strategici e Politici, mi invitò inaspettatamente a scrivere un contributo per un libro dedicato ai Maestri e alle grandi guide delle contemporaneità. Una riflessione fuori dal quotidiano tra Etica e cultura d’impresa. Sul fondale: fragilità delle democrazie e del senso di comunità, in un’epoca dominata dalla rivoluzione digitale.

Fui imbarazzato per diversi motivi. Non fu solo l’effetto di una personale, innata avversione per le grandi guide, innescata probabilmente da certi anticorpi di pensiero laico e liberale inoculati in gioventù.

Il panorama dei leader politici mondiali mi appariva sconsolante, anche i punti di riferimento morali sfumati. E poi Etica è una parola che non amo maneggiare, perché è una provetta delicata che è meglio non scuotere, soprattutto quando dalla sfera strettamente personale la si intenda allargare alla Società, per non dire allo Stato. Gli esperimenti del Novecento dovrebbero essere bastati.

Infine c’era pure quel sottile velo di pigrizia, che spesso non riusciamo a infrangere da soli, se non troviamo chi ci obbliga a farlo. Pensare è una cosa, ma mettere nero su bianco richiede tempo e ben altra fatica. È la stessa differenza che passa tra avere buone idee e realizzarle. Ogni imprenditore lo sa bene.

Il prof. Rizzi fu molto abile ad abbassare, una a una, le transenne che avevo garbatamente anteposto, e lo fece attraverso una lunga conversazione nel suo studio milanese che, prendendo le mosse da Lucio Fontana, ci portò amabilmente a spasso tra arte, architettura, filosofia (per me sempre un po’ inafferrabile) e pensiero politico. Parlammo soprattutto di democrazia e informazione nella nuova era digitale. Mi arresi infine al compromesso di un’intervista da riportare a testo scritto, che finì nel libro “Maestri e nuove guide “ edito da Rubbettino a luglio 2017.

Lo recupero e pubblico oggi in due parti.

Perugia, 16 febbraio 2021


Essere custodi responsabili (parte I)

Attualmente il vissuto di un’impresa risulta inscindibile dal contesto economico del paese di appartenenza, poiché la recente crisi finanziaria ha intrecciato come non mai fattori che prima apparivano quasi indipendenti.
Negli ultimi anni è emerso chiaramente che l’Italia è condizionata dalle dinamiche europee molto più di quanto si potesse immaginare. E che a sua volta il destino dell’Europa è strettamente ancorato alle evoluzioni dello scenario mondiale.

Fino a un recente passato i risultati aziendali apparivano molto più influenzati da meriti imprenditoriali specifici e ragioni da ricercare nelle immediate vicinanze, che non dal corso generale dell’economia e della politica. Poi la crisi finanziaria ha prodotto effetti dirompenti, bussando praticamente alle porte di tutti, dalle grandi alle piccole imprese, fino ad infilarsi nelle case di ogni privato cittadino.

Per ricordare a ciascuno di noi che ormai siamo un sistema interconnesso: anche il più piccolo battito d’ala di una farfalla può propagarsi a livello globale e produrre effetti percepibili ovunque. Ciò che porta anche a riflettere se sia stata scelta opportuna, da parte di chi produce e concorre all’economia reale, avere così pigramente delegato l’amministrazione della sfera pubblica. L’impresa e la politica sono state infatti a lungo percepite come missioni distinte, ma è una separazione che andrebbe probabilmente ripensata.

Allargo dunque una prima considerazione sul tema dei grandi maestri ad un’analisi della fase storica attualmente attraversata dalla società. Anche perché non nascondo il mio imbarazzo e difficoltà a individuare figure pubbliche del panorama mondiale, dotate di una statura politica paragonabile a quella di omologhe personalità che, in altri tempi e in occasione di passaggi storici cruciali, hanno dimostrato capacità di modificare grandemente il corso degli eventi.

Del resto è innegabile che la storia sia fatta di persone. Così come è indubbio il fatto che la maggiore o minore capacità di visione delle guide del momento, produca sostanziale differenza nell’attraversamento di fasi particolarmente critiche. La considerazione è sicuramente banale. Ma vera, come è spesso una considerazione banale.

Accettando di alzare per un attimo lo sguardo dalla quotidianità, la fotografia satellitare del nostro pianeta mostra uno scenario di profondi cambiamenti, non solo climatici. Stiamo assistendo infatti allo scioglimento delle due calotte polari dei riferimenti morali tradizionali della nostra società occidentale: da un lato quello religioso, dall’altro quello dell’ideale politico.

Si avverte la pressione di flussi migratori che muovendosi hanno portato a rinnovati scontri culturali e di civiltà, che parevano ormai archiviati come pagine storiche di un passato lontano e irripetibile. Lo sgretolamento valoriale attuale non ha trovato una compensazione in nuovi punti di riferimento, inoltre l’adesione asentimentale alla tecnologia non ha ancora sviluppato pienamente una potenzialità di ricostruzione in forme nuove, anzi ha contribuito ad un’ulteriore frantumazione della società specialmente nella sua parte legata ai mezzi di comunicazione. Le vicende politiche degli ultimi tempi mostrano un’evidente fragilità nel sistema di costruzione dell’opinione.

La democrazia – che, come Churchill amava ricordare, resta la più imperfetta delle forme di governo, escluse tutte le altre – è sempre stata bilanciata dalla capacità di formare una coscienza critica. E questo compito fondamentale è stato a lungo affidato, seppur informalmente, al cosiddetto “quinto potere”, ovvero ai media e alla stampa, non intesi come semplici mezzi di comunicazione, ma come strumenti di stimolo di un’analisi ponderata.

In un ambiente caratterizzato da ritmi e rumore di fondo in costante crescita, si percepisce come sempre più attutita la voce dei maestri, intesi come coloro che sanno ancora richiamare le coscienze civili al dovere di rifuggire dalle vie brevi e dalle decisioni d’impulso, invitando a fare una scelta più elaborata sulla realtà.

Il sistema democratico è per sua natura fragile, è una creatura delicata che non andrebbe svilita, ma meriterebbe tutte le tutele possibili. In particolare, per crescere sana, si deve nutrire solo della migliore informazione. Che nel corso degli ultimi anni ha conosciuto un’accelerazione rapida, ma anche una profonda trasformazione.

Nel giro di appena qualche decennio, si è passati dall’epoca della carta stampata, in cui pochissimi parlavano a pochi, a quello della radio/televisione in cui pochi si rivolgevano a molti, per arrivare al presente in cui, grazie alle tecnologie digitali e social network, molti parlano a tutti. Fenomeno di costante allargamento e inclusione, che però mostra di aver progressivamente ridotto e banalizzato, anziché ampliato e valorizzato, il ruolo del giornalismo come sentinella critica. L’ultima frontiera attesa è già alle porte: quella in cui tutti parleranno a tutti. Ma con quali effetti sulla formazione di un sano pensiero d’opinione?

Nel passaggio da grandi firme della carta stampata di inizio secolo, quali Albertini, Barzini, Ojetti, agli anchorman dell’informazione di epoca televisiva avevamo già assistito, nel corso del Novecento, a un progressivo aumento della velocità associato però ad un impoverimento preoccupante della capacità di elaborazione.

Se si potesse misurare la qualità della notizia e della modalità di veicolarla che internet ha ora compresso sia lungo l’asse del tempo che dello spazio – spostando la direttrice dell’informazione verso un linguaggio prevalentemente visivo, ennesima scorciatoia per trasferire con immediatezza e suggestione – potremmo facilmente verificare tutte le criticità del presente.

A nessuno può sfuggire che un moderno cinguettio su Twitter non abbia capacità di muovere le stesse elaborazioni di pensiero di un articolo di fondo. È proprio nel campo dell’informazione fatta a più voci, capace di contraddire, stimolare e mettere alla prova le proprie idee che io ravviso maggiormente ora la mancanza di maestri e guide.

Pur essendo dotati di protesi tecnologiche che ci permettono di avere accesso a una quantità illimitata di informazioni, appariamo incapaci di trarne beneficio, anzi. Nel dopoguerra, nella fase della ricostruzione, giornalisti e direttori del calibro di Leo Longanesi, Ennio Flaiano, Mario Pannunzio, Giuseppe Prezzolini, Indro Montanelli alimentavano dispute anche accese politicamente, che erano parte integrante di un sistema di formazione dell’opinione vigile, attento e presente, con una vis polemica che interrogava e provocava.

Indro Montanelli

Pur resistendo alla tentazione di dipingere con toni epici un passato della stampa ormai tramontato, appare evidente una differenza abissale tra il sistema preponderante delle news, ridotte a informazione semplicemente trasferita, e l’elaborazione intellettuale di una notizia. Qui il vuoto lasciato dai grandi maestri del giornalismo risulta ai miei occhi una mancanza particolarmente grave e percepibile.

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