Fran Gehry Architecture

Frank Owen Gehry, (all’anagrafe Frank Owen Goldberg), 95 anni compiuti, è un architetto canadese naturalizzato statunitense, vive da sempre a Santa Monica nella stessa “villetta”, che nel corso degli anni è diventata il “manifesto fisico” della sua necessità di sperimentare e di creare le condizioni definitive, per un “prima e un dopo” l’architettura coeva.

“Io sono l’architettura contemporanea, il resto è noia”.

(Le variazioni Goldberg).

Lui è già nel futuro, ed è come se sentisse di avere tempo, ma solo per arrivare a creare una nuova prassi professionale, senza epigoni e con pochi compagni di strada, Gehry è solo, anche se molti guarderanno alla sua opera, successiva, senza mai confrontarsi veramente, concretamente.

Non è un caso che la piccola architettura sia espressione dell’espansione di quell’area ai bordi del Pacifico, colonizzata da freaks, con poche disponibilità economiche rispetto alla vicina Los Angeles. Frank nasce altrove ma trova la sua traccia, il suo percorso, in California, il suo mondo ideale, libero, oggi diremmo hippy, ma questo si capirà poi.

 All’inizio degli anni sessanta dopo la collaborazione con Victor Gruen, apre il suo studio, e viaggia, studia, perché avrà bisogno di molto tempo per diventare “Gehry”, almeno fino alla fine degli anni settanta (la casa per la sua famiglia è del 1978).

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Con la nascita del “cheapscape”, che potremmo tradurre come “spazio realizzato con pochi mezzi”, assistiamo ad una delle più significative rivoluzioni formali, estetiche e funzionali del XX e XXI secolo, un percorso che avrà per l’architetto una sequenza infinita di varianti, in quasi mezzo secolo di spettacolarizzazione professionale, una luminosa parabola ancora vivida, come per Bach anche Gehry ha le sue: ”variazioni Goldberg”.

Il successo professionale planetario diventa iconico ad ogni disvelamento, passo dopo passo, Gehry fa il vuoto attorno a se, correndo in un’altra competizione, e naturalmente i tempi del Chepspace sono lontani, ma i traguardi si moltiplicano inarrestabili.

Siamo convinti che non ci sia stato un vero approfondimento a partire da Santa Monica fino ad Arles e Londra, perché col principio assiomatico del de-costruttivismo tutto può essere spiegato, tutto può essere archiviato, ma non è così.

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La fragilità della dialettica tra architettura e filosofia contemporanea, non è in grado di leggere questo gigante, ne restituisce un’immagine parziale, limitata alla spettacolarizzazione che le sue opere producono nello spettatore, ma soprattutto nel critico.

Dire Guggenheim Bilbao, Walt Disney Concert Hall, è come usare una formula linguistica che in superficie è condivisa ma nelle profondità del suo pensiero complesso, ci appare come inespugnabile, è simile al processo letterario dell’inesprimibile, dell’indicibile che circonda il lavoro di alcuni importanti scrittori: dire quello che si nasconde dietro il “non dire”.

Dunque il suo enorme lavoro cerca di costruire un universo parallelo dove la “sua” architettura compete col mondo la fuori, rendendolo inadeguato, superato, in poche parole: noioso, vecchio.

Alla sua veneranda età non ha mai rinunciato allo slancio inarrestabile costante, alla voglia incoercibile di dare alla cultura del progetto contemporaneo nuove occasioni, altre possibilità scevre dall’acquiescenza alla retorica diffusa e irrilevante.

Gehry non è solo un maestro, ma è il punto più alto di tutte le ricerche che si sono succedute ed estinte negli ultimi decenni, lui nella luminosità sorprendente del gesto assorbe, metabolizza tutti gli altri (Morphosis, Koolhaas, Hadid, e compagnia), nella ridefinizione del vocabolario ultimo e attuale dei principi dell’architettura.

Tutto questo avviene con una sostanziale leggerezza che nasce dalle prime realizzazioni, una indiscussa capacità di imporre forme e programmi, spesso molto costosi, al limite della stramberia dell’arte contemporanea che, mai riuscirà ad inglobarlo, perché lui è un architetto, perché lui è un produttore di una certa idea di mondo, con cui dobbiamo confrontarci e da cui faremo fatica ad allontanarci.

Ho scelto la Casa Gehry e le ultime realizzazioni a Londra e ad Arles per parlare del pianeta concreto di questo ultimo visionario, anche lui come Philiph Dick anticipa i contesti sapendo che prima o poi saranno proprio così, ed è per questo che il grande scrittore di fantascienza dirá provocatoriamente: io sono vivo, voi siete morti.

Architettura e società hanno bisogno di emozionarsi, di immaginare che possano esistere altri percorsi metodologici, altri orizzonti, migliori o peggiori ma sicuramente diversi, capaci dare senso alle nostre quotidianità e Gehry chiede questo all’esperienza dei suoi progetti, uno stupore molto concreto, possibile.

Il modo migliore di descrivere il suo lavoro è immergersi, lasciare gli stati di coscienza per viverli come vera forma di “realtà aumentata”, Luoghi e Spazi che lasceranno un segno indelebile nella percezione del singolo, spettatore di una diversa estetica che trasformerà le forme più alte dell’avanguardia, in normalità, consuetudine.

Ecco perché Frank Gehry non è un artista ma gioca con le arti per restituirci le ricerche più controverse e complesse dell’architettura, ma sotto forma di una nuova naturalità che vive come dicevamo, quasi in una diversa idea di semplicità: Bilbao e Abu Dabi sono molto di più che semplici architetture, rappresentano il modo in cui la contemporaneità vuole essere ricordata, e questo non era mia riuscito a nessun progettista, nel mondo.

Per altro la sua parabola creativa ci appare ancora piena di potenzialità, di segni, di sorprese, mai sopita, vivida di una luce che rende ogni architettura unica, irripetibile, definitiva, non credo che milioni di analisi fatte su Gehry abbiano approfondito questo ragionamento, apparentemente inspiegabile, ma visibile.

Uomo del suo tempo, ma che ha dilatato questo concetto filosofico fino alla sua più profonda trasformazione, una “architettura del divenire”, quel presente permanente che elabora un suo status autonomo, che trascorre senza lasciare traccia dell’accumularsi di una memoria che vive incastonata nell’adesso, fuori dalla storia del secolo, e delle sue rappresentazioni.

Frank Gehry è indubbiamente qui per raccontare “il pianeta che vorrebbe”, ed è riuscito a regalarcene molti capitoli, frasi, periodi, senza guardare i contesti e senza aver paura di rendere l’architettura quella marginalità edilizia che fa parte del mondo costruito, ed ecco ritornare “il prima e il poi”, nel suo universo creativo, senza titubanze e senza alcun ripensamento.

Siamo sicuri di aver capito bene, di aver visto giusto, perché il grande Frank Gehry, vecchio gatto sornione, ci sembra sempre pronto a dare l’ennesima zampata all’universo della noia estetica e della consuetudine delle paure formali.

La storia (la sua) continua.


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