Padiglione Zenith a Strasburgo, Massimiliano Fuksas, 2008

Avevo visitato Strasburgo molto tempo fa: nel ricordo, una tranquilla località turistica di confine dove il dato antropologico-culturale più eccitante è il mistero se l’Alsazia sia ancora Francia o Germania.

Per il resto, il suo essere “capitale d’Europa” sembra non toccarla affatto: niente di strano, visto che l’Europe n’existe pas. Esiste invece qui ben visibile il Gotico con il suo più alto e incredibile monumento, la Cattedrale di Notre Dame che se ne sta piantata con i centoquarantadue metri della sua torre proprio nel mezzo della città storica: una visione che toccherebbe il cuore, se non la testa, anche del più ottuso degli architetti.

Cattedrale di Notre Dame – Strasburgo

All’intorno, ben poco di contemporaneo. Certo, tornandovi a distanza di anni luce, fa un certo effetto trovare davanti all’ipnotico confluire tra le acque dell’Ill e l’urbanizzazione di molti secoli (che è forse la vera attrazione del genius loci) il gigantesco scatolone vetrato del Musée d’Art Modern et Contemporain: ma ha solo dieci anni e li dimostra tutti, non aiutato da una mostra di tristi fotografie di Uklanski.

Quale sarebbe del resto la ragione per inserire le dissonanze del contemporaneo in un contesto così equilibrato tra le diverse epoche, come appare quello di Strasburgo? Forse una sola, la necessità di creare comunque, anche in questa provincia felix, situazioni adatte alle rumorose necessità dell’intrattenimento contemporaneo: jazz, rock, pop, rap, hip-hop, electro, etc., di cui i francesi sono tanto mediocri produttori quanto entusiasti consumatori.

Più in generale, secondo un’intelligente e sperimentata politica urbanistica in cui sicuramente la Francia ha moltissimo da insegnare, si rivela strategica la scelta di creare attraverso l’architettura i cosiddetti “luoghi di aggregazione sociale”.

L’espressione suona orrenda, ma sta più o meno a significare l’innegabile necessità per tutti, specialmente quelli che non stanno tra gli happy few, di potersi ritrovare a fare esperienze, in particolare quelle musicali, che possano ricreare il senso della comunità: nel peggiore dei casi, un’alternativa non violenta alle sanguinarie battaglie tra bande rivali di ultrà.

È nata così, per soddisfare questa necessità non superflua, l’idea degli Zénith, nuova ed eccentrica tipologia architettonica a metà tra lo stadio e l’Auditorium (su cui si sono misurati molti altri progettisti, come Bernard Tschumi) che in più riabilita, seppure in parte, le neglette periferie francesi.

Padiglione Zenith a Strasburgo, Massimiliano Fuksas

È quindi il contesto suburbano di Strasburgo – comune di Eckbolsheim, precisamente – quello in cui si colloca l’intervento di Fuksas, piccola astronave fermatasi lungo la sua rotta di avvicinamento alla città: un segnale visivo da scorgere in lontananza, di giorno abbacinante arancio (perché anche nel tardo inverno il sole d’Alsazia non ha niente d’invidiare a quello di Provenza), di notte lanterna magica su cui si proiettano le ombre delle piranesiane strutture interne.

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Sembra volersi prendere gioco Fuksas degli astrusi discorsi di tanti colleghi sulla ‘pelle’ dell’architettura, portata qui all’estremo: se pelle dev’essere che sia, un’ideale unica grande (12.000 metri quadri) membrana di tessuto spalmato tesa come un tamburo sopra la complicata struttura d’acciaio che volteggia sospesa fino a 27 metri d’altezza. Dentro, sospesa su un cilindro centrale di cemento armato, un’arena per diecimila posti (la più grande, finora, per gli Zénith) ampliabile fino a dodicimila.

Padiglione Zenith a Strasburgo, Massimiliano Fuksas

In alto, appesa a una struttura che da sola pesa 70 tonnellate, una seconda città sopraterranea, la grande macchina scenica in cui corrono luci, proiezioni e gli altri marchingegni mobili per lo spettacolo. Fuori, un altissimo e dinamico oggetto alieno. Atterrato letteralmente nel nulla, o meglio tra ipermercati, raccordi autostradali e parcheggi – per riconoscersi ed essere riconosciuto lo Zénith di Fuksas non poteva che ricorrere alla metafora scultorea; ne risulta un grande oggetto a reazione emotiva, tra futurismo e Pop, un immenso Oldenburg astratto ma senza le preoccupazioni mercantili di far riconoscere la buccia d’arancia, la tazza di caffè o – peggio – l’ago e il filo di certe dubbie incursioni urbane.

A Colmar, pochi chilometri di distanza, un flash improvviso per il cronista viaggiatore in pellegrinaggio laico all’Altare di Isenheim: un concerto di bizzarri angeli musicanti sognati e dipinti da Grunewald è forse l’allegoria di un Maligno capace di trasformare le sue pericolose lusinghe in meravigliosi effetti sinestetici, cui cederebbe anche Gesù, per quanto Bambino.

Padiglione Zenith a Strasburgo, Massimiliano Fuksas

Bene, anzi meglio: viste le presenze che si aggirano nella regione, non ci sarebbe niente di male se anche dietro le sembianze di Fuksas si nascondessero quelle del Doktor Faust. 

Esiste forse un patto migliore per un architetto? Vendere l’anima della costruzione al demone della scultura, della pittura a tre dimensioni o comunque della creazione di edifici come icone: forse questo è il segreto per il lavoro del costruttore vero contemporaneo. In un mondo ad estetica zero, etica sotto zero e spiritualità allo zero assoluto, di fronte all’ambiguo formalismo dei progettisti al servizio delle immobiliari, l’indifferenza di Fuksas per le logiche della speculazione edilizia, il suo evidente rifarsi alla scultura nei progetti di grandi strutture per l’intrattenimento (compreso il Palazzo dei Congressi dell’Eur a Roma, quando inizieranno a costruirlo) hanno il sapore della Commedia, proprio in senso dantesco.

Per un attimo, tra i bagliori arancio e rosso fuoco dello Zénith che torno a visitare di notte – affollato da migliaia di assicuratori riuniti in una convention nazionale, in mancanza di qualche clamoroso concerto rock – sembra d’intravedere a tratti una grande ombra oscura: se è il Maligno, sembra molto soddisfatto del patto con l’architetto.