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L’architettura è morta? Allora viva il design

Passeggiando nella galleria pop dei grandi rivoluzionari degli ultimi due secoli magicamente resuscitati dal tratto e dall’ingegno del grande Giangiacomo Spadari (per la galleria Schwarz, nel 1970) e respirando l’aria retrò della storia sepolta delle grandi illusioni ho pensato alle arcaiche valenze dell’architettura e della sua simbologia semiologica, morte come i vecchi padri delle illusioni. Delle immagini serigrafate non rimane nulla dell’archetipo che le ha originate ma solo il segno nell’opera dell’artista.

L’architettura è morta, Viva il design.

Il disegno è per gli spiriti decadenti, che non riescono a sganciarsi da Viollet Le Duc, dai gangli preraffaelliti, da Morris, se non addirittura da McIntosh, mentre la società sembra non aver più nulla da chiedere alla noble art (non mi riferisco alla boxe anche se esistono profonde similitudini tra queste discipline).

E’ scomparsa la capacità di produrre identità che non risultino schiacciate dall’istantaneità dell’evento, dall’”adesso permanente” che non ci piace per niente ma che eccita le menti semplici, il consumatore medio, del flaneur che cincischia, dissimula, deborda, sbrodola sulla filosofia di Eco, distingue e dissangua la teorica residuale del contesto che attanaglia.

Quartieri spagnoli, Napoli
Quartieri spagnoli, Napoli

Jencks che mangia noccioline al  Greenwich Village con Umberto Eco, e crede di poter definire il perimetro del mondo sovrapponendolo a quello del loro tavolo. Resta il bicchiere vuoto di un aperitivo e di un tempo lontano, perduto, abbandonato di cui non sentiamo la necessità di ricerca: Proust si è pettinato in maniera tale che neppure lo specchio o il sembiante sono riusciti a riconoscerlo.

“Spadari revolt-pop” ci ri-sospinge nelle piazze dell’infantile rivoluzione e nessuno è rimasto a contare le perdite, i feriti, i cadaveri eccellenti, dentro questo sogno etilico perenne, costruire è un pretesto per non prendere altre decisioni.

La rivoluzione può attendere, e la vera innovazione pure.

La ragione, “razionalmente suo”, architettura razionale e altri miti del XX secolo, guardano. Come il colpo di fucile che riecheggia ancora dal 1961 alla Finca Vigia, Papa/Ernst costruisce uno dei più imponenti monumenti alla razionalità letteraria ed umana della storia del mondo, e esce di scena per manifesta incapacità di subire il mondo, dopo aver cercato di cambiarlo.

Ma quale architetto avrà mai sentito in quelle parole tutta la parabola sonora del costruire, dell’edificare, del gettare nel mondo un’artificialità che tanto assomiglia alla realtà e la religione letteraria di Hemingway ci conduce dritto al sodo, vicinissimi a quel grilletto.

2) Essere fisici è il mestiere del futuro (anche dopo la pandemia)

Abbiamo cercato nelle sostituzioni progressive la relativa tranquillità che potesse allontanarci dalla realtà fisica, lontani dal compromesso digitale che ci riparasse dal delirio analogico, e in questo l’architettura ha trovato casa come tante altre discipline dello spettacolo continuo e indifferenziato, come uno show che continua all’infinito senza sapere perché.

Non ci eravamo ripresi da “Ginger e Fred” e da “Re per una notte”, e non bastava il Leone d’Oro per farci sembrare al pari degli attori al Lido o alla Croisette, simulatori assoluti, questo mestiere e questo lavoro è in crisi d’identità perché oltre ad aver perso i paradigmi (più o meno come tutte le altre forme di creazione intellettuale) non si riconosce più nella memoria di questa essenza perduta.

Il dramma digitale ha facilitato le prassi, e smobilitato l’impegno, falsificando il pensiero ultimo che restava a garanzia dell’onestà culturale, dove ogni elemento si prende, si mescola, si scinde in altre forme e in altri dogmi, senza dare il tempo di creare nulla, ma semplicemente dedicandosi alla riproduzione del prevedibile.

Lo studio di Francis Bacon
Lo studio di Francis Bacon

E’ la rinuncia alla fisicità dei sensi, alla sfida che il corpo pone all’architettura come condizione per trovare argomenti per migliorare lo stato di benessere o di malessere in cui vive, il senso che daremo all’espressione estetica altro non è che la fusione degli altri cinque, assonnati e contaminati.

La pandemia ha narcotizzato “il piacere delle percezione”, lo sguardo si  è rinchiuso in se stesso senza per questo cercare dentro ulteriori risposte, e dunque il campo “della casa e del mondo” risulta sguarnito, depredato dalle scorribande dei “faccia-tisti a-dimensionali” che costruiscono le città come tante San Pietroburgo posticce, soltanto con edifici più alti, e strani, e senza alcun rapporto con la storia dei luoghi che avrebbero dovuto accoglierli.

Ci vorrebbero Pasolini, Moravia e Calvino ri-programmati nella contemporaneità dei processi delle arti, perché “se nessuno sente, nessuno è capace di raccontare”, allora la letteratura imitazione alta del mondo potrebbe riprendere il sopravvento e gli scrittori finalmente potrebbero sostituire i critici e i comunicatori, potrebbe ma sarà difficile perché mancano i tempi di reazione, tutto accade ora, anzi è già accaduto.

3.Il compromesso (per Elia Kazan)

Come descrivere, dunque il tempo presente? come dare senso ai sensi che percepiscono lo spirito del nostro tempo? Per esempio potremmo rileggere il meraviglioso testo di un eretico come Elia Kazan, tradotto recentemente come Il compromesso (mi riprometto di farne una critica letteraria più ampia) dove il protagonista multitasking si direbbe oggi esprime compiutamente raccontando la sua storia, la storia di un epoca, di un paese e di una classe sociale.

La scrittura del grande regista è veloce e incisiva, non è mai accomodante con i personaggi e incide la carne viva di un’America sull’orlo perenne di una crisi di nervi, e da quello rivediamo Las Vegas, Venturi, i fricchettoni della west coast mentre Ghery a Santa Monica comincia a sfondare il tetto della sua villetta, rifondando l’architettura morente.

Allora la letteratura aiuta, ma non è sufficiente perché non contiene le soluzioni ma semplicemnte analizza le contraddizioni, poi tutto passa al creativo-creatore, a quel tecnico che oggi soprattutto dovrebbe ricominciare a sporcarsi le mani con il “liquido sociale” che deve definire nel processo di costruzione di nuovi simboli.

Giangiacomo Spadari, Trotsky
Giangiacomo Spadari, Lenin

Non ci aspettiamo certo una Villa Savoie, o un Guggenheim, o una Farnswort house, anche perché quel tipo di società cercava nell’architettura certezze assolute, e una barriera netta tra passato e futuro, ma oggi, basterebbe superare l’iconicità del gesto spettacolare che diventa sempre meno denso di stupore, per essere contemporanei.

Capisco che l’essenza della cultura del progetto è materiale complesso da maneggiare ma possiamo tentare di trovare nuovi argomenti, nuovi elementi disturbanti che non ci facciano annegare nelle certezze della pratica e nell’assenza di teorie estetiche, come la società dello spettacolo istantaneo, impone.

La durata non è argomento da mettere in discussione, basta continuare a produrre centro, mille progetti per anno, tanto per non dare tempo per almeno guardarli con attenzione, e questo aiuta, esprime compiutamente il desiderio ultimo della nostra epoca: esistere, dimostrare che ci siamo, tanto basta poco per dimenticare, perché un’altra icona è già pronta da pubblicare.

Come lo zucchero nel caffè altera il sapore originale, i surrogati sono diventati più digeribili di una antica naturalità, ma non possiamo dimenticare che ogni società e ogni tempo, hanno bisogno di giustificazioni e noi saremo ancora pronti a dare al nostro “adesso permanente”, la vocazione illusoria dell’immortalità.


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