Miles Davis

Il titolo gioca sull’uso fuorviante dell’accostamento delle parole brew (miscuglio, infuso, bevanda in fermentazione, miscela, pozione) e bitch che viene usato sia in senso spregiativo (prostituta, strega, anche riferito alla crew di Miles, ma nell’accezione del verbo, diventa qualcosa di pregevole).

Dunque la nostra personalissima idea del titolo è quella di brodo primordiale, la preparazione di una potente pozione magica di cui non conosciamo gli effetti diretti e collaterali, lo sciamano elettrico non avrebbe mai dato, come sempre, alcuna spiegazione.

I musicisti che suoneranno per tre giorni d’agosto sulla trentesima di NYC, allo studio B di Columbia Record non possono sapere quello che sta per accadere.

Tredici strumentisti, Miles compreso, registreranno ore di suoni che saranno definiti nei modi più fantasiosi ma mai nessuno è riuscito a spiegare il significato di quei centosei minuti di musica, divisa in sei tracce.

Impressi indelebilmente  in un doppio album, pesante come un macigno ma leggero come un incantesimo.

La post-produzione a cura di Teo Macero, produttore complice e geniale, dura fino alla fine di gennaio del 1970, poi si stampa e l’album esce il trenta marzo 1970.

Miles Davis

E’ difficile raccontare con distacco quello che accade dopo, e quello che ancora accade a quanti si avvicinano, dopo mezzo secolo esatto a quei solchi, perché bitches brew non è solo l’inizio di una avventura sonora ma anche la fine di ogni certezza, di ogni prevedibilità musicale.

Niente sarà più come quello che è stato e mai nulla sarà come quello che abbiamo ascoltato ( e che continuiamo ad ascoltare).

Naturalmente la critica osserva e ascolta sgomenta, come davanti ai primi dipinti cubisti, o poco dopo l’esecuzione della Sagra della Primavera.

Nell’iconografia classica dell’incomprensione, l’uomo che da sempre è osannato e giustiziato dopo l’uscita di ogni suo disco, qui non può che leggere un necrologio all’irrapresentabilità dell’inudibile, ed è subito il mondo intero a  diventare un classico, pompier, accademico, inadeguato.

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Miles è lo strumento, la sua tromba è solo un feticcio, un oggetto per il rituale sciamanico, per il sortilegio, un piccolo bastone di ottone dorato con cui minacciare gli ignari ascoltatori.

Eppure sapevamo che era l’uomo sopravvissuto a se stesso, a Kind of Blue, il cannibale soccombente nei duelli antropofagi con Parker e Coltrane, capace di transustanziarsi per partenogenesi.

Miles Davis

 Il Dark Magus, l’uomo che ha avuto il compito di raccontare le tenebre della conoscenza assoluta, deve accettare di uccidere tutto il suo talento per metterlo alla prova, ogni giorno, in ogni istante, per farne l’inadeguatezza sonora dell’umanità intera.

Un disco sul filo dell’inascoltabilità, diventa il più venduto in quel genere che nella preistoria chiamavano jazz, ed ora è semplicemente la musica che non capiamo ma è la sola che vogliamo ascoltare.

Miles non compone più, ruba all’universo il suo segreto sonoro inconfessabile, sono le viscere della materia ancestrale e universale che vibra, anche se pur sempre frequenze, se non addirittura: note.

DeJohnette, Zawinul, Corea, Moreira, Shorter, Holland, McLaughlin e gli altri si accomodano sul gigantesco lettino dello studio della Columbia per l’ultima seduta psicanalitica che si trasforma in spiritica, ma sono così grandi “i dodici prescelti” che non sembrano avere paura, in fondo devono solo fare un “disco”.

In fondo sono una “band esperta” che si ritrova a galleggiare, e per tre giorni, nel brodo primordiale della musica, e ce ne importa poco se la traduzione del titolo non è esattamente questa, l’imprinting forgerà ognuno di loro, ma mai sapranno riprodurre, raccontare, quello che è successo sulla Trentesima a New York.

Mezzo milione di copie vendute in pochi mesi rendono tutto più facile e più difficile. Miles aveva ragione ma si è dimenticato il punto di partenza, la teoria, non ci sono le tracce scritte di Bitches brew, sono state cancellate, o forse non sono mai esistite veramente.

Rimane quel magnifico rettangolo disegnato da Mati Klarwein, e le stesse sei tracce da continuare ad ascoltare fino all’ossessione catartica.

Alla fine torniamo sempre allo stesso punto, un nastro di Moebius sonoro che non si può interrompere, un artificio che rende ognuna delle tracce sempre diversa da se stessa perché riassume tutte le potenzialità della musica, il suo inizio e la sua fine, la matrice arcaica e il suo destino ultimo.

Miles Davis

Croce e delizia, appunto, beatitudine e ansia, la volontà di autoflagellazione che ci rende il piacere, più alto, attraverso una forma soave di masochismo, e ci sentiamo come destinatari unici e assoluti di Bitches Brew di quella specie di messaggio che per un pelo non siamo riusciti a scrivere sul foglietto stropicciato del nostro udito impolverato.

Ma che importa, proviamo a riascoltarlo un’altra volta, l’ultima, prima che improvvisamente il suono, quel Suono impresso in quel cerchio nero di vinile, si dissolva per sempre.

Forse questo è il destino del talento di Miles Davis, l’elogio più alto all’indescrivibile sonoro del nostro passato e del nostro futuro, che qualcuno  ancora si ostina a chiamare semplicemente: Musica.

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registrazione

19-20-21 agosto, 1969
28 gennaio, 1970 (Bonus track)
30th Street,Columbia B Studio,New York

durata

106’. Columbia Records

In vendita dal  30 marzo 1970

Musicisti

Batteria Jack DeJohnette e Lenny White,

percussioni  Don Alias, Juma Santos e Airto Moreira,

sassofono soprano  Wayne Shorter,

clarinetto basso Bennie Maupin,

pianoforte elettrico Chick Corea, Joe Zawinul, Larry Young,

basso  acustico Dave Holland, elettrico Harvey Brooks,

Chitarra solista John McLaughlin.

*effetti sonori del produttore Teo Macero, in fase di post-produzione.


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