Omaggio a un grande maestro della grafica italiana – ma anche del giornalismo e della comunicazione d’architettura, design e arte, compiuti e aperti al mondo attraverso i mixed media in evoluzione della cultura del progetto.
Come per i migliori maestri del design italiano, è molto difficile, quasi impossibile, incasellare in categorie convenzionali la figura e l’opera di Italo Lupi che anche in questa contemporanea età del dilettantismo ha cercato di mantenere sempre ordine e logos, parola e discorso (visivo) insieme, pur nell’eclettismo del saggio che sa che il mondo ha molte forme diverse e ne vuol far apparire il più possibile.
Così che tra le tante medaglie sulla sua divisa da generale buono (come uno di quelli ironicamente raffigurati dal suo amatissimo Saul Steinberg, cui riuscì a dedicare una bellissima mostra in Triennale solo due anni fa) sfavilla quella di art director e direttore di Abitare: che volle e seppe far tramutare da onesto mensile d’arredamento a magazine, anzi rivista, di cultura e progetto, aperta a tutte le arti, dall’architettura al design, anche con il mio contributo come redattore freelance, dal 1992 al 1999.
E ora che Lupi non è più fisicamente qui con noi, non si può che sentirne davvero la mancanza, per molte ragioni: dal suo fairplay nel condurre un’intera redazione e un editore (Renato Minetto) a realizzare esattamente quello che era la sua visione del comunicare il progetto, al fatto, meno confortante, che a raccogliere la sua eredità non c’è nessuno. Per certi aspetti suo erede anarchico è stato e avrebbe potuto essere ancora Giuseppe Basile, storico e umanissimo art director di Domus. Ma anche lui, purtroppo, è mancato l’anno scorso, prematuramente, ingiustamente.
Non è quindi facile non cedere all’emozione per chi scrive, che di entrambi è stato sodale, amico, compagno di difficoltà, successi e non poche risate, prima a Domus, poi ad Abitare e poi ancora a Domus: da dove, chiamato da Deyan Sudjic ad essere vice direttore della rivista di Gio Ponti, di Lupi osservavo ammirato il procedere sempre elegante e misurato, in tante performance progettuali, come gli allestimenti realizzati con Achille Castiglioni, Ico Migliore, Mara Servetto, oltre ancora a quell’Abitare che finché ne è stato il direttore ha rappresentato una bella, seria alternativa a Domus.
Forse per questo, in una sincronicità che sembra assurda nello stupore triste per la sua morte, può essere utile qui riportare un testo che proprio Lupi mi chiese, per il piccolo, prezioso libro catalogo di una sua mostra personale nella leggendaria Ginza Graphic Gallery a Tokyo. In sole 64 coloratissime pagine è raccolta una lunga tranche de vie della sua carriera di grande inventore di immagini, permeato dalla passione per la cultura e il design anglosassone, che ha però saputo tradurre in un inconfondibile originalissima italianità, pronta a sorprendere con la grazia di un’irregolare pianificazione, o di una pianificata irregolarità.
Così che anche nella sua precisissima richiesta di 1400 battute per questo testo – che a più di vent’anni di distanza mi pare ora più giustamente analitico che critico – sta tutto lo spirito scientifico di un autore come lui: che non avrebbe mai voluto essere chiamato “artista” ma che per il complesso, la vastità, la varietà e la riconoscibilità della sua opera e ricerca può e potrà sicuramente e a ragione essere definito “artista grafico”. Graphic Artist nella traduzione inglese, autore che non è solo designer ma anche narratore. Proprio come Italo Lupi ha saputo narrare in 70 anni di lavoro il suo lunghissimo romanzo visuale “Abitare il Mondo”.
Italo Lupi, ovvero, l’italianità della grafica italiana
Italo Lupi è un architetto. Una sua certa frequentazione della cultura visiva moderna, (quella anglosassone, innanzitutto), il gusto di mescolare le due e le tre dimensioni, il piacere di costruire qualcosa non in cinque anni ma in cinque ore lo hanno però deviato sulla rischiosa strada del design. Questo modo di fare progetto, non inventato ma reinventato in Italia, è proprio quello che altre culture ci rimproverano e invidiano. Parlando con un designer italiano (o italianizzato) si farà infatti fatica a capire di cosa si occupa: comunicazione, marketing, ingegneria, psicologia? Anche Lupi, diventato un designer grafico, ha mantenuto quest’ottima, cattiva abitudine dei designer italiani: ripensare ogni volta da capo un oggetto (una comunicazione, un’immagine) mettendo insieme le componenti del problema in un modo che nessuno prima aveva pensato, per arrivare a una nuova soluzione.
Quindi, in ognuna delle moltissime opere di Lupi si troverà sempre un’idea, piccola o grande, mescolata però a un fondamentale atteggiamento da architetto: per cui i vari alfabeti di segni verranno sempre a comporre una forma di costruzione, esattamente come un’architettura, inconfondibilmente dovuta alla sua mano, al suo modo di usare pieni, vuoti, colori e caratteri come materiali da costruzione.
Perciò questo scritto avrebbe potuto avere per titolo anche “Italo Lupi architetto dell’immagine” e molti altri che qui non c’é spazio per riferire: le 1400 battute stanno per finire, quello che si doveva dire (un po’ meno, per la verità) è stato detto, le leggi della forma e del contenuto sono state osservate e trasgredite. Proprio come amano fare gli italiani, specialmente i designer.
Scritto tra il 26 e il 29 dicembre 2000, in omaggio all’anno che se ne va, a quello che arriva, a te e a me o a chi ci pare. S.C.
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