Lucy Moholy

Due grandi occhi chiari interrogano l’obiettivo, è lei: Lucia Moholy, fotografa pioniera, che ha raccontato per immagini la vita e le opere della famosa scuola tedesca del movimento moderno di cui, altrimenti, non avremmo testimonianze così nitide. Un mondo in “bianco e nero” che sembra giocare, per contrasto, con la profonda sensibilità cromatica e la ricerca sui colori primari e secondari che contraddistingue uno dei principi del Bauhaus (ricordiamo i rivoluzionari giocattoli di Alma Siedhoof-Buscher o le vivaci trame dei tessuti di Anni Albers).

Lucia Schulz (Moholy) nasce a Praga nel 1894, dove studia storia dell’arte, filologia e filosofia all’Università. Spetta a lei l’indiscusso merito (in compagnia della sua inseparabile macchina fotografica, prima di grande formato poi una Leica portatile) di aver testimoniato attraverso il fantomatico terzo occhio l’esistenza, oltre l’architettura e il design, del Bauhaus. Negli anni Venti del novecento incontra a Berlino Walter Gropius, che seguirà a Weimar all’ombra del marito artista ungherese László Moholy-Nagy. Una figura ingombrante la sua, che ricoprì un importante ruolo di docenza, muovendosi con disinvoltura tra arte, grafica, fotografia con la sua teoria “New Vision” fino a scivolare nel cinema.

“Con la fotografia nel processo di riproduzione delle immagini, la mano si trovò per la prima volta alleggerita dalle principali incombenze artistiche, che ormai furono riservate esclusivamente all’occhio fissato sull’obiettivo”. Così scrisse Walter Benjamin in un passaggio de” L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Lucia Moholy fu l’occhio che fissò per sempre su pellicola trasparente l’opera di giovani o sapienti mani al lavoro.   

Lucy Moholy

Tra le varie discipline insegnate nell’Istituto la fotografia non aveva un posto, né le si riconosceva all’inizio una specifica funzione -tra laboratori d’arte, scultura, grafica e design – fino a quando Lucia fa il suo ingresso sulla scena ed inizia a dar voce a quel mondo fatto di progetti prima ancora che di oggetti (dei quali far percepire il loro aspetto plastico e la forte appartenenza oggettiva). Un coinvolgimento che ha permesso di documentare sistematicamente centinaia di entità “inanimate”, seppur parlanti, e portare alla luce un universo ricco di sfumature, alternanze e forme che altrimenti rischiava di raggomitolarsi in un angolo della memoria storica.

La fotografia diventa il suo linguaggio, i sottotitoli di un mondo in divenire, un esperimento incompiuto che i posteri avrebbero avuto difficoltà a decodificare senza quel memento. Un lungo ed intenso lavoro di documentazione durato ben cinque anni, durante i quali la Moholy ha catturato su pellicola edifici e spazi, oggetti ma soprattutto persone tra cui Paul Klee, Kandinsky, Anni Albers e il vibrante corpo di artisti e docenti che animava le lezioni e dirigeva i laboratori della scuola.

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Critici ed appassionati del suo lavoro hanno riscontrato il coinvolgimento attivo e il ruolo partecipativo della fotografa in affiancamento ai “disegnatori-creatori”; molto spesso i suoi scatti catturano, invece, i prototipi e le sperimentazioni degli allievi. Ispirandosi all’estetica avanguardistica della “nuova oggettività” contribuisce con le sue opere icastiche a conferire identità alla scuola. Il suo preponderante utilizzo del chiaroscuro ed uno sguardo dalle angolazioni inconsuete, le superfici riflettenti ed il forte contrasto bianco-nero diventano essi stessi elementi di progettazione.

Si potrebbe definire, oggi, parte integrante del processo creativo di sviluppo del prodotto? La fase “selvaggia e concettualmente libera”, sperimentale – come viene definita ne “La fotografia al Bauhaus a cura di Paolo Costantini” -ben rispecchia l’opera di Lucia Moholy, che svela nuove potenzialità per la fotografia di design.  Quando lascia il Bauhaus (l’ultima sede di Berlino sarà tristemente destinata a chiudere con l’ascesa del nazismo) si traferisce a Londra e continua la sua carriera dedicandosi ai portraits di aristocratici inglesi, apre un suo studio e nel 1939 dà alle stampe quello che è considerato un caposaldo della storia della fotografia A Hundred Years of  Photography, 1839-1939.

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Pesa sul suo cuore la perdita, o quella che lei ritiene tale, delle migliaia di negativi scattati nei suoi anni di lavoro alla scuola, non sapendo che sarebbero presto riemersi dalla schiuma del tempo (Gropius li aveva in qualche modo protetti, recuperati e portati con sé negli Stati Uniti).  L’archivio della fotografa è stato oggetto di una lunga e tormentata battaglia legale a distanza, intentata proprio con il fondatore del Bauhaus, per veder riconosciuta la maternità intellettuale dell’opera; un ingente lascito di grande valore storico e l’unica documentazione possibile di quel lavoro spesso mai entrato in produzione.

E fu grazie ad un’altra donna, Lilly Reich, se un pezzo altrettanto significativo del patrimonio di fotografie e disegni del Bauhaus venne strappato alla distruzione nazista: circa 3.000 lavori di Mies van der Rohe e 900 a firma Reich, e nascosto nella casa di campagna di un’amica di Lily fino alla fine della guerra. Il rientro di questo “tesoretto di arte visivo” dalla Germania dell’Est fu poi negoziato dallo stesso van der Rohe e donato al MoMA solo molti anni dopo.


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