Il volume Natural Genius patrocinato dalla Fondazione Guglielmo Giordano, di prossima presentazione all’Arena di Milano si arricchisce di alcuni racconti, sia editi che inediti, nati dalla sapiente penna e approfondita conoscenza della storia del design di Stefano Casciani.

Tra i più amati ricordiamo “Ascolta il tuo cuore natura”  e la “Fabbrica degli alberi”, una narrazione intensa e poetica capace di permeare l’azienda di un senso ontologico sopito, raccontandone lo spirito e i valori che la animano dal profondo. Collaborazione che ha permesso di far convergere la raffinata rivista Disegno allo sfaccettato mondo dell’azienda Umbra.

 A questi si affiancano tre piccoli capolavori di fantasia dedicati a tre designer protagonisti dell’opera – Michele De Lucchi, Patricia Urquiola e Marc Sadler – un viaggio onirico tra presente e passato, accarezzando a volo radente il confine leggero tra realtà e sogno. 

Una storia di Michele De Lucchi

di Stefano Casciani

Quella mattina Michele De Lucchi si risvegliò come sempre molto presto, ma qualcosa di diverso – un pensiero, un dubbio, un ricordo – disturbava la routine che aveva scelto per essere quel che voleva essere: il treno da Angera, lo studio in centro a Milano, i viaggi, gli appuntamenti, l’agenda che era diventata la sua seconda compagna (da quel lontano 1982 quando l’aveva messa in una mostra e libro come progetto, un po’ per scherzo un po’ sul serio); i disegni a mano, la navigazione tra architettura e design, e poi ancora il treno la sera, quasi ogni sera.

Quella mattina invece mentre si faceva il caffè e aspettava fissandola che dalla macchina – che aveva disegnato per Alessi e che gli piaceva continuare a provare per magari scoprire qualcosa da migliorare – uscissero i primi sbuffi di vapore a dirgli ok, ci siamo, non gli riusciva di pensare altro che a quel vapore.

Finché non gli sembrò di sentire una leggera improvvisa variazione della luce nella cucina. Non ci fece troppo caso, prese una tazza di caffè, tornò in camera e si mise a preparare la valigia piccola, tanto il viaggio non era lungo: mise dentro due o tre foto dei suoi che gli piaceva guardare ogni tanto, si avviò alla porta, alla strada, all’auto che lo aspettava per andare in aeroporto…
L’albergo non gli sembrò peggiore o migliore dei soliti, ma c’era di buono che la stanza fosse quasi una suite, dove poteva pensare di rilassarsi dopo la giornata che era comunque stata lunga, tra il viaggio, le riunioni, il pranzo e la cena. Aprì dunque la porta della stanza/suite: stranamente, la luce nell’ingresso – una sua Tolomeo parete, per combinazione – era accesa e dal living veniva la voce sabbiosa di Bob Dylan:

“…Oh, Mama, can this really be the end To be stuck inside of Mobile
With the Memphis blues again…”

Parole che adesso non gli sembravano dire molto ma per forza gli ricordarono una sera d’inverno di moltissimi anni prima – a casa di amici a Milano, sarà stato il 1980 – in cui quella canzone continuava a suonare da un giradischi. Nel living della stanza al Belfort Hotel non c’erano giradischi, ma solo una specie di iPad collegato forse a Spotify o cose così, eppure la musica era proprio la stessa. Né i giradischi né gli iPad però si accendono da soli, era entrato con una chiave normale, niente chip e automatismi: di aver lasciato la luce accesa Michele proprio non si ricordava.

Credits Sabina Betti

Fece dunque qualche altro passo nel corridoio e si affacciò nel living.

Sul divano c’erano due lunghe e magre gambe accavallate, infilate in un paio di pantaloni di tela kaki, molto eleganti e solo un po’ sformati – attaccati alle gambe un paio di mocassini, del genere da barca, portati senza calze: più sopra una camicia di lino bianca, e ancora più sopra, una bella testa di capelli grigi lunghi legati in un codino. Non poteva essere, ma invece era: era Ettore, Ettore Sottsass jr.

La bella testa di Sottsass si girò, gli sorrise e parlò con la sua voce più amichevole e quel leggero accento torinese che solo chi lo conosceva bene e gli voleva bene poteva sentire: “Come stai, Michele?” Per rispondergli Michele cercò con la mano una poltroncina più vicina possibile da accostare al divano, la tirò a sé mentre lo guardava e si sedette, non tanto piano che gli occhi gli si erano annebbiati per un attimo. Non poteva essere, ma era proprio Ettore: che adesso lo guardava con gli occhi azzurri che aveva visto tante volte – in tanti anni di studio insieme, poi all’Olivetti e ai bei tempi di Memphis – cambiare espressione: senza mai lasciare una specie di malinconia che portava con sé, per cose che Michele stesso avrebbe poi capito dopo molto tempo.

“Va tutto bene?sentì ancora la voce chiedergli, visto che non aveva ancora risposto. “Certo Ettore, va tutto bene”, riuscì a farsi uscire sorridendo da sotto la barba lunghissima che non sapeva neanche più lui se doveva nascondere qualcosa o semplicemente lo aiutava a meditare bene proposizioni e risposte.

“Ho saputo che stai facendo tante architetture… bravo.” “Sì lavoriamo molto, anche qui a Milano, nel quartiere di Porta Nuova. Abbiamo fatto un padiglione per una banca, per fare concerti, cose così”. “Mi ricordo Porta Nuova, stavano partendo i cantieri quando ho iniziato a non poter uscire di casa. E sei soddisfatto, è venuta bene la costruzione “Sì, sai che da tempo mi occupo di questi edifici costruiti per lo più in legno…” “Lo so era diventata la tua passione. Hai fatto bene, benissimo.

Io non ho saputo tanto lavorare bene solo con un materiale, mi piaceva molto cambiare, sperimentarne tanti… “Michele sentì che non doveva spiegargli niente, ma un’idea precisa l’aveva. “È perché vedi, Ettore: così mi sembra di stare più vicino alla Terra, sai? Mi capisci, tu che hai sempre scritto con tanto rispetto per “il Pianeta”, così chiamavi la Terra.”

“Eh sì, graffi d’amore sulla pelle del Pianeta …”

Sorrisero, insieme, ripensando al titolo di quell’antico testo di Ettore più o meno dedicato all’amore e alle sue forme nel progetto, uscito moltissimo tempo prima. Sottsass si sporse un po’ in avanti, si prese il viso tra le mani, le lasciò lentamente scorrere in giù, tirò un sospiro, si sfregò gli occhi con le dita e rialzò la testa verso Michele.

“Scusami, sono un po’ stanco. Non mi sono mai ripreso bene da quel periodo in cui sono stato male. Tu invece stai benissimo, sembri contento.”
“Penso di sì: anche se stamattina mi sono svegliato con questa sensazione… come un ricordo. Forse eri tu il ricordo che stava arrivando” disse Michele, sorridendogli appena.

“Dimmi di più. Com’è essere così concentrati su questo problema di disegnare con la natura?” “Non saprei spiegartelo così bene. Per me è iniziato molto tempo fa, lo sai, quando non erano in tanti a parlarne, a lavorare concretamente su questa direzione. Poi mi sono appassionato sempre di più, ho fatto i miei esperimenti con mobili, vasi, lampade, sempre usando il legno. A casa ad Angera mi sono anche attrezzato una falegnameria, ho recuperato un magazzino e ci ho fatto studio e laboratorio, si chiama il Chioso.”

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“Sei bravo a mettere le mani direttamente sulle cose, sul legno: immagino che ti sceglierai anche i tronchi… Per me la natura 05 invece è un mondo a cui bisogna rubare i segreti. Quando facevo le ceramiche provavo a buttare nel fuoco ramoscelli, erbe: per vedere se i colori cambiavano, se le ceramiche che venivano fuori mostravano qualche segno più interessante della vita che le genera, che ci genera…”

“Per me le cose hanno cominciato a funzionare bene insieme, quando ho pensato che si potessero costruire anche edifici riutilizzando venuta una specie di fissazione per gli alberi. In un certo senso devo a loro una parte della mia vita, del mio lavoro.”

Credits Sabina Betti

“Ti capisco. Anch’io dovevo la mia vita e il mio lavoro, alle cose, alle terre umili che nessuno guarda ma servono a fare ceramiche molto belle, a quei granellini di plastica da cui si possono ricavare invenzioni incredibili e molto ben funzionanti, ai laminati che sembrano niente ma con cui si possono costruire mobili molto duraturi e a loro modo belli.

Il resto è merito di qualche cliente, con un po’ di soldi, che mi ha lasciato fare quello che pensavo fosse giusto progettare e realizzare: come case, negozi, oggetti, uffici. Come anche quelli che abbiamo fatto anche insieme, per tanto tempo. Però ci dev’essere qualcosa che a te ha più affascinato nel dedicarti tanto alla materia di cui sono fatti gli alberi, anzi loro – come dici tu – e a quello che con loro si può fare.”

Michele si alzò dalla poltroncina, era più tranquillo adesso – e si mise a frugare nella borsa, finché non tirò fuori un librettino, bianco, con la costa giallo fluo. Tornò verso il divano e lo porse a Ettore, che prese a sfogliarlo. C’erano degli schizzi, molto di getto, quasi degli scarabocchi, ma che illustravano bene le parole.

“È vero, ho scritto anche questo libretto, si chiama ‘Loro che sono l’oro’” gli spiegò. “Perché sono loro, gli alberi, che si prendono cura del paesaggio, lo rendono bello, fresco e naturale. Non sanno nemmeno cosa vuol dire brutto. Tutto quello che fanno è bello, originale, autentico. Non sbagliano mai… e sanno trasformare l’angolo più squallido, sporco e disordinato in un angolo di paradiso terrestre… Ma hanno anche un’anima, soffrono: non lo fanno vedere, tengono nascoste le loro emozioni sotto quella che sembra una corteccia… ma è una pelle, come la nostra. Sono sempre lì, li trovi tranquilli e pacifici, che ci guardano, benevoli, come se assecondassero i nostri pensieri, folli e le nostre preoccupazioni, inutili.”

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“Gli vuoi molto bene a questi esseri…” disse sorridendo Ettore. “Lo penso veramente. Quando sono a casa, sul lago, o quando vado da qualche cliente che li ama come me, mi pare di sentirli – incoraggiarmi con la loro calma, la visione della vita su tempi che noi facciamo anche fatica a immaginare. Ci sono boschi, in Francia, dove un albero può crescere anche per cent’anni prima di essere usato: e per ognuno che viene utilizzato – quindi, per forza, tagliato – se ne piantano altri dieci. Mi sembra giusto trattarli bene e volere loro bene. Sono a diretto contatto con la terra, sentono e assorbono le sue vibrazioni.”

“Allora faccio io delle domande, qualche domanda che mi sono fatto anch’io tante volte. Alla fine, sappiamo così poco di quello che ci passa per la testa mentre lavoriamo… La piega dei capelli di una donna c’entra con la curvatura di un vaso?

Il ricordo della luce dentro la scala di Pagano alla Triennale c’entra con l’illuminazione dei quadri di Sironi in un museo da fare adesso? Il colore degli alberi sulle montagne del Colorado ti guida nel cercare il colore per il piano di un tavolo?” 07 “Forse sì, Ettore. Penso che le cose sulla Terra, quelle naturali e quelle artificiali, siano tutte legate tra loro. Le sue vibrazioni fanno in modo che le distanze cambiano in continuazione, anche impercettibilmente. Negli oggetti le vibrazioni della Terra si riproducono nel suono, nel tatto, nei profumi, con tutti i possibili stimoli che vengono dall’ambiente. Così con loro ci sentiamo vivi. Gli oggetti giusti ci permettono una vita interna più ricca, e quando sono perfetti risuonano dentro chi li guarda, li usa.”

Ettore lo guardò con un gran sorriso, poi gli disse: “Hai proprio ragione Michele, hai detto – forse meglio – quello che ho pensato per tanto tempo anch’io”, poi sospirò di nuovo. “Vuoi fermarti qui a dormire?” gli chiese Michele “Io posso stare sul divano.” “Grazie, rimango ancora un po’, poi andrò a casa. Ma tu ricordati questo…” Parlò ancora una decina di minuti e Michele sentì che non avrebbe dimenticato quello che gli stava dicendo, mentre gli si chiudevano gli occhi per la stanchezza.

Gli sembrò un attimo, ma quando li riaprì, Ettore Sottsass jr non c’era più. Allora Michele si ricordò che doveva disegnare proprio l’allestimento della sua mostra in Triennale, per il centenario. Si alzò dalla poltroncina e si sedette alla piccola scrivania, prese dalla borsa il quaderno degli schizzi, controllò che le idee fossero ancora buone: pensò a quello che gli aveva detto Ettore. Pensò che poteva essere un segnale di andare avanti, pensò che gli aveva fatto bene vederlo: anche se non era vero, gli aveva fatto bene lo stesso.