Articolo pubblicato sullo speciale Design
del magazine “Riflesso”.

Autore: Carlo Forcolini

Da circa un secolo l’arte ha rinnegato la ricerca del bello, così come nei secoli precedenti era stata teorizzata da neoplatonici fiorentini come Marsilio Ficino e Luca Pacioli. Le avanguardie storiche del Novecento fanno piazza pulita della cosiddetta arte borghese, che rappresentava il bello e il buono, e con essa cessa di esistere anche la distanza tra il simbolo e il suo significato, caratteristica propria del linguaggio universale dell’arte.

Quando Duchamp firma un orinatoio e lo espone come un’opera d’arte, l’oggetto d’uso diventato scultura dichiara la sua rinuncia all’utilizzo del linguaggio simbolico e alla sua capacità di comunicare universalmente. Filiazioni duchampiane come la pop art (sul piano delle tecniche di rappresentazione) e l’arte concettuale (sul piano dei contenuti) isolano sempre più consapevolmente l’arte dalla relazione con il sociale, fino alla liberatoria dichiarazione di Andy Warhol di considerarsi un artista commerciale.

Marcel Duchamp – Fontana

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L’arte si racchiuderà sempre più nella sua dimensione elitaria e mercantile, in un mondo a parte, seguendo le logiche dei suoi nuovi padroni: la finanza, le assicurazioni, il collezionismo internazionale ecc. Insomma un grande mercato, organizzato secondo regole di marketing, come qualsiasi altro mercato. Ovviamente, malgrado e contro questa tendenza generale, si affermano tanti autentici geni come, uno su tutti, Francis Bacon.

Il soggettivismo degli artisti ha frammentato la possibilità di una definizione generale di questa parola, rendendola ormai davvero difficile da “maneggiare”. Nello stesso periodo in cui l’arte veniva dissacrata dalle avanguardie artistiche del Novecento, architetti, artisti, industriali e filosofi si ponevano la questione del linguaggio estetico degli oggetti della cosiddetta cultura materiale: il design.

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In Inghilterra, Austria e Germania il dibattito e le attività si moltiplicano, fino alla costituzione del Bauhaus a Weimar nel 1919, il caposaldo storico di tutte le scuole di design del secolo scorso. La questione estetica in quegli anni si allarga, dal mondo dell’arte a quella degli oggetti d’uso, con il contributo fondamentale di artisti, artigiani, architetti, e teorici, tutti sostenuti da imprenditori visionari.

Possiamo dire che la bellezza si sia trasferita dall’arte al design? Penso di no. La parola ormai sopravvive soltanto nel lessico generalista. Però, se per bellezza s’intende l’intelligenza che l’uomo impiega nelle cose, allora la sostituirei con la parola “senso”, certamente più appropriata alla cultura del fare sempre condizionata da una quantità di vincoli materiali del tutto sconosciuti al mondo dell’arte. Bruno Munari ricordava che i designer, dovendo trovare soluzioni a problemi concreti, non hanno uno stile, caratteristica al contrario degli artisti. Tuttavia, a mio parere, se nell’opinione comune persiste l’ambiguità tra Arte e Design, è perché qualcosa del fare artistico è comunque rintracciabile anche nel fare design.

Bruno Munari

Questo qualcosa si manifesta proprio nel senso della creazione, anche se su piani diversi dell’arte, e in particolare nel design italiano che affonda le sue radici storiche nel movimento futurista più che nella cultura industriale, come il design tedesco o inglese. Ad esempio, il tavolo Valmarana di Carlo Scarpa non permette la seduta a capotavola, e le persone siedono solo lungo i due lati lunghi del piano. Che senso ha? Scarpa pensava al convivio delle persone come una comunità senza gerarchie, come dire alla pari, senza un capo o un superiore. Chi scrive, ha disegnato l’Apocalipse Now, un tavolo basso con la luce centrale e il piano in acciaio corten, che mantenendo le tracce del suo uso diventa, nel tempo, altro e diverso da quello prodotto in serie.

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La luce centrale evoca lo stare insieme circolarmente, anche in questo caso senza gerarchie, come intorno al fuoco. Per non parlare della lampada Taccia di Pier Giacomo e Achille Castiglioni, un capolavoro nel quale ritroviamo uno spirito artistico neo-dada nel suo “dare forma alla luce” attraverso una campana di vetro diversamente orientabile: la luce è risaputo non ha forma. Un ultimo esempio, del tutto diverso dai precedenti, ma con la medesima intenzionalità, è il tavolo Effe (parte di una serie di oggetti) di Enzo Mari per Metamobile di Simon-Gavina. Qui il tavolo non viene mostrato come prodotto finito, ma come progetto da costruire a basso costo con le proprie mani.

Lampada Taccia – Pier Giacomo e Achille Castiglioni

Sono solo alcuni esempi di quello che potremmo chiamare design semantico, dove la forma, pur rispettando la sua funzione d’uso, si carica di significati altri, e dove l’estetica è rappresentazione di un pensiero etico e antropologico. Sono oggetti di design lontani dal design funzionalista dove la forma è espressione migliorativa della prestazione d’uso, un approccio che in ogni caso ha prodotti autentici capolavori, molto innovativi sia nel linguaggio formale sia nei suoi aspetti prestazionali.

Tavolo Effe – Enzo Mari

In questi esempi, appare evidente quel qualcosa di molto vicino al pensiero artistico. Tutto questo non ha nulla a che fare con l’estetizzazione delle merci che a partire dagli anni ’50 del secolo scorso veniva ben riassunta nella sintesi dal grande designer americano di adozione Raymond Loewy: il brutto vende male. Perciò, il bello che vende molto, deve avere un impatto emozionale, deve farci sognare, immaginare, deve estraniarci in mondi diversi, farci sentire altri nei nostri panni perché fumando una Marlboro mi devo sentire un cow boy del selvaggio west, e su tacchi improbabili e molto pericolosi mi devo sentire una star e non quella che madre natura ha creato.

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Insomma, se l’arte come teorizzava Walter Benjamin nel ’35 ha perso l’aura, il suo Hic et Nunc, per via dei mezzi di riproduzione di massa, da quasi mezzo secolo i mezzi di comunicazione di massa e il marketing si sono incaricati di creare la nuova aura delle merci. Un processo ineluttabile del quale siamo partecipi da anni, e nel quale è difficile orientarsi perché l’inganno e la confusione regnano sovrani. E se è vero che nessuno compra più gli occhiali soltanto per vederci meglio, e che alcuni li comprano con le lenti neutre solo perché pensano di stare meglio, è anche vero che l’ossessione estetica dell’apparire generata dal mercato riduce sempre più il tempo della nostra interiorizzazione degli oggetti di cui ci circondiamo. Remo Bodei nel suo “La vita delle cose” ci ricorda che gli oggetti ci appaiono freddi e funzionali, mentre le cose che entrano nella nostra vita si caricano di significati umani.

Melbourne – Australia – Medoc Listone Giordano

“Noi investiamo intellettualmente e affettivamente gli oggetti, diamo loro senso e qualità sentimentali, li avvolgiamo in scrigni di desiderio o in involucri ripugnanti, li inquadriamo in sistemi di relazioni, li inseriamo in storie che possiamo ricostruire e che riguardano noi o gli altri”, e continua citando Lydia Flem: “Le cose non sono soltanto cose, recano tracce umane, sono il nostro prolungamento. Gli oggetti che a lungo ci hanno fatto compagnia sono fedeli, nel loro modo modesto e leale.”

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Quanto gli animali o le piante che ci circondano. Ciascuno ha una storia e un significato mescolati a quelli delle persone che li hanno utilizzati e amati. Insieme formano, oggetti e persone, una sorta di unità che si lascia smembrare a fatica”. Affermazioni che confermano la centralità della nostra umanità fagocitata sempre più dal tempo del consumo sottratto a quello della riflessione, il tempo proprio sia dell’arte sia del design.

Riappropriarci di questo tempo, significa orientarci nell’apparente confusione insita in qualsiasi cambiamento dove passato, presente e futuro non sono più una ordinata sequenza temporale. Aprire piccoli spazi di riflessione ci aiuterebbe a capire e discernere le cose che hanno un senso dal ciarpame indistinto delle merci. Ci aiuterebbe a non fare confusione tra arte e design, cogliendone le differenze e i punti di tangenza. E non sarebbe poca cosa.


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