
Valentina Borgnini
In occasione delle recenti celebrazioni dedicate a papa Francesco, numerose immagini e riprese televisive lo ritraggono sullo sfondo di un dipinto tanto noto visivamente quanto poco conosciuto nella sua genesi e nel suo percorso storico: una Resurrezione di Cristo eseguita da Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il Perugino (Città della Pieve, 1445 – Fontignano, 1523)

cm 233×165, Città del Vaticano, Appartamento Pontificio di Rappresentanza, Biblioteca del Santo Padre.
L’opera, oggi conservata negli ambienti riservati del Palazzo Apostolico Vaticano, è divenuta nel tempo una presenza costante nelle rappresentazioni ufficiali del pontefice, pur rimanendo per lo più invisibile al grande pubblico

Un dettaglio che riporta l’opera prepotentemente all’attenzione è l’attualità stessa: proprio in questi giorni sono stati ufficialmente riaperti i sigilli dell’Appartamento Pontificio nel Palazzo Apostolico, dove Leone XIV ha scelto di risiedere, segnando un ritorno simbolico e concreto in quegli ambienti che, per decenni, sono stati cuore della vita papale. Così, anche la Resurrezione del Perugino torna sotto i riflettori: non più solo sfondo silenzioso di discorsi solenni, ma presenza viva nella quotidianità di un nuovo pontificato.
Il percorso dell’opera attraversa secoli di storia religiosa, artistica e politica, e si radica originariamente nel contesto umbro del tardo Quattrocento. Fu commissionata il 2 marzo 1499 da Bernardino di Giovanni di Matteo da Orvieto, facoltoso mercante di zucchero e possidente terriero, per la chiesa di San Francesco al Prato di Perugia, luogo di sepoltura delle principali famiglie cittadine, e fu verosimilmente completata in tempi relativamente brevi, entro il 1500-1501.
Bernardino, devoto in particolare a san Rocco – santo dei pellegrini e protettore contro la peste – richiese non solo una tavola raffigurante la Resurrezione di Cristo, ma anche la realizzazione di un affresco con l’immagine del santo, da collocarsi accanto all’altare. L’accordo economico prevedeva un compenso di cinquanta fiorini d’oro, somma rilevante che attesta il prestigio dell’incarico e la reputazione già consolidata dell’artista.
La tavola presenta il Cristo risorto sospeso in una mandorla dorata, al centro della composizione, con il sepolcro marmoreo aperto in basso, circondato da soldati dormienti o attoniti. L’impianto compositivo, l’uso della luce e la resa dei dettagli architettonici e plastici rivelano l’influenza della cultura classica e attestano la piena maturità stilistica del Perugino.
Per secoli, la tavola rimase all’interno della chiesa di San Francesco al Prato, come attestano fonti antiche tra cui Giorgio Vasari, che la menziona brevemente, e Ottavio Lancellotti, che la localizza nella “cappella della Resurrezione” (ante 1641). Ulteriori testimonianze forniscono dati più precisi: nel 1683 G. Francesco Morelli indica la presenza della tavola “a lato della porta, per cui entrasi in questa Chiesa”, mentre già alla fine del XVI secolo Cesare Crispolti la collocava nello stesso punto.
La porta in questione corrisponde all’attuale ingresso laterale visibile sulla fiancata sinistra dell’edificio, affacciata sul prato. Il rinvenimento, nei pressi di tale accesso, di un frammento di affresco raffigurante la parte inferiore di una figura maschile con mantello e bastone – iconograficamente riferibile a san Rocco – ha permesso di identificare con maggior certezza la posizione originaria dell’opera

Oggi, grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia digitale, una ricostruzione virtuale in 3D consente di restituire visivamente ciò che il tempo ha cancellato, rendendo accessibile a studiosi e pubblico la genesi e la storia conservativa di un capolavoro altrimenti invisibile. La tavola era collocata lungo la parete sinistra della navata, nel primo vano liturgico che si incontrava entrando dalla porta maggiore

In seguito alla ricostruzione della chiesa avviata nel 1740 sotto la direzione dell’architetto perugino Pietro Carattoli, l’altare fu smantellato e la tavola trasferita nella parete di fondo del transetto sinistro, adiacente all’altare di San Francesco.
Nel 1797, a seguito del Trattato di Tolentino, l’opera fu tra quelle requisite dalle truppe napoleoniche e trasferite in Francia. Dopo essere stata imballata e trasportata oltre le Alpi, venne esposta al Musée Napoléon (attuale Louvre). Soltanto dopo la caduta dell’Impero, grazie all’intervento di Antonio Canova – allora Ispettore Generale delle Belle Arti – il dipinto fu restituito all’Italia. Tuttavia, non rientrò a Perugia: fu destinato alle collezioni pontificie e accolto nella collezione privata di papa Pio VII.
Dal 1964, la Resurrezione di Cristo del Perugino è custodita nella Biblioteca Privata del Papa, all’interno dell’Appartamento Pontificio. È per questo motivo che l’opera è nota anche con l’appellativo di “Perugino del Papa”. Pur non essendo accessibile al pubblico, la tavola appare con frequenza in fotografie ufficiali e riprese televisive, divenendo nel tempo una sorta di “presenza simbolica” nei momenti più solenni del magistero papale. Milioni di persone, spesso inconsapevolmente, hanno potuto scorgerla alle spalle dei Pontefici durante allocuzioni, incontri ufficiali e storici messaggi al mondo.
Recenti ricerche d’archivio hanno messo in luce un elemento finora trascurato negli studi sull’opera: la tavola era in origine completata da una predella a più scomparti, oggi dispersa. Al centro, un piccolo ovale raffigurava un Ecce Homo, anch’esso attribuito alla mano del Perugino.
Questo dato, documentato ma finora non considerato nella letteratura critica, consente di ricostruire con maggiore precisione la configurazione originaria del complesso altare e di apprezzare ulteriormente la ricchezza e la coerenza iconografica del progetto voluto da Bernardino da Orvieto.

Nel primo Cinquecento, predelle con al centro una Pietà o un Ecce Homo erano piuttosto diffuse, e non si può escludere che la predella perduta del Perugino abbia influenzato opere simili.
Una tradizione, probabilmente di origine ottocentesca, sostiene che i volti di due soldati dormienti accanto al sepolcro sarebbero ritratti del Perugino e del giovane Raffaello. L’attribuzione, pur suggestiva, non trova alcun riscontro negli studi moderni, né sul piano stilistico né su quello documentario.
E oggi, mentre Leone XIV si appresta a prendere posto tra le stanze dell’Appartamento Apostolico, quello stesso Cristo che il Perugino innalzò tra oro e nuvole continua a vegliare, silenzioso, sulle tempeste della storia. Non è forse un caso che proprio un suo predecessore per nome, Leone XIII, avesse con Perugia – e con l’arte umbra – un legame profondo, che oggi sembra simbolicamente rinnovarsi. In fondo, forse, ogni Pontefice ha avuto anche questo compagno invisibile: un dipinto antico che parla di vita oltre la morte, di eternità e di rinascita. Un’opera che non appartiene più soltanto a una chiesa o a un museo, ma all’anima stessa di chi, attraversando i secoli, cerca nella luce della Resurrezione una promessa di speranza e di vita eterna.
*Il presente contributo fa parte del saggio in preparazione dal titolo “La Resurrezione del Perugino: committenza, contesto e fortuna visiva di un’opera tra Umbria e Vaticano”, di prossima pubblicazione.
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